È impresa familiare solo se c’è atto pubblico o scrittura autenticata
Pubblicato il 01/03/17 06:41 [Doc.2575]
di Redazione IL CASO.it


Il documento deve contenere l’indicazione nominativa dei partecipanti all’attività, avere data anteriore all’inizio del periodo d’imposta, essere sottoscritto dal titolare e dai congiunti

Dal punto di vista fiscale, in assenza di atto pubblico o di scrittura privata autenticata che attesti la partecipazione dei familiari dell’imprenditore all’attività d’impresa, non è ravvisabile un’impresa familiare. Di conseguenza, i proventi imputati ai parenti collaboratori, non potendosi ritenere questi contitolari dell’impresa familiare, non sono assimilabili a reddito d’impresa, ma a redditi di puro lavoro.
Questo, in sintesi, il contenuto della sentenza della Corte di cassazione 2472 del 10 febbraio 2017.

Il fatto
A seguito di una verifica fiscale condotta dalla Guardia di finanza nei confronti di un’impresa familiare, esercente attività di commercio al dettaglio di prodotti di tabaccheria e di piccola oggettistica, l’Agenzia delle Entrate notificava gli avvisi di accertamento per gli anni 2005 e 2006.
Gli atti impositivi, che recepivano il contenuto del processo verbale di constatazione redatto dai militari della finanza, avevano a oggetto l’accertamento di un maggior reddito di impresa, con conseguente ricalcolo delle imposte dovute ai fini delle imposte dirette e dell’Iva.

Il ricorso proposto dal contribuente veniva respinto sia dalla Commissione tributaria provinciale sia da quella regionale.
I giudici d’appello, nel confermare la decisione dei primi giudici, avevano ritenuto legittimo il contenuto degli avvisi di accertamento dal punto di vista della ricostruzione analitica dei maggiori ricavi, ottenuta attraverso la rilevazione fisica delle merci presenti in azienda e del relativo prezzo di vendita.
Inoltre, gli atti de qua apparivano legittimi e corretti anche dal punto di vista dell’imputazione dei maggiori ricavi “alla sola contribuente in quanto titolare dell’impresa familiare”, difettando la presenza di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata da cui risultasse l’indicazione nominativa dei familiari partecipanti all’attività d’impresa.

La contribuente ha proposto ricorso per cassazione avverso la decisione di secondo grado.
Con il principale motivo di ricorso la parte ha censurato la sentenza impugnata per violazione delle norme fiscali sull’impresa familiare, deducendo che il maggior reddito accertato non poteva essere imputato interamente alla titolare bensì pro-quota con il coniuge, titolare di una quota di partecipazione agli utili.
A supporto di tale affermazione, la contribuente lamentava che la Ctr aveva omesso di esaminare i quadri della dichiarazione dei redditi della titolare dell’impresa, attestanti l’avvenuta ripartizione del reddito con il coniuge partecipante all’impresa familiare.
Il contribuente denunciava, inoltre, la nullità della sentenza impugnata in relazione all’omessa instaurazione del litisconsorzio necessario con il coniuge partecipante all’impresa.

La Corte di cassazione ha ritenuto infondati i motivi di ricorso della contribuente e ha rigettato il ricorso.

La decisione
Oggetto della controversia è il corretto trattamento dei redditi prodotti da un’azienda familiare di cui all’articolo 220-bis del codice civile, ai sensi del quale è considerata tale l’impresa nella quale collaborano i componenti la famiglia (coniuge, parenti entro il terzo grado, affini entro il secondo grado) prestando in modo continuativo la propria attività lavorativa.
L’articolo 5, comma 4, del Tuir, che disciplina il trattamento fiscale dei redditi prodotti da tale tipo di impresa, prevede che questi sono imputati – limitatamente al 49% dell’ammontare complessivo risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore – a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. La norma stabilisce che, per accedere a tale regime fiscale, è necessario il ricorso delle seguenti condizioni:
la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore deve indicare le quote attribuite ai singoli familiari e l’attestazione che le stesse sono proporzionate alla qualità e alla quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa, in modo continuativo e prevalente
ciascun partecipante deve attestare, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver lavorato nell’impresa familiare in modo continuativo e prevalente
da atto pubblico o da scrittura privata autenticata deve risultare l’indicazione nominativa dei familiari partecipanti all’attività d’impresa; l’atto, inoltre, deve avere data anteriore all’inizio del periodo d’imposta e deve essere regolarmente sottoscritto dall’imprenditore e dai familiari.
Nel caso di specie, seppur le dichiarazioni dei redditi dei partecipanti all’impresa familiare fossero state compilate in modo corretto, era stata omessa la stipula dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata da cui risultasse l’indicazione nominativa dei familiari partecipanti all’attività di impresa.
A parere dei giudici di legittimità, il difetto anche di una sola delle condizioni, espressamente previste dall’articolo 5 del Tuir, preclude la possibilità di accedere al trattamento fiscale in materia di impresa familiare.
Pertanto, seppur soltanto ai fini fiscali, non si ravvisa più un’impresa familiare ma un’impresa individuale, in cui “i familiari collaboratori non sono contitolari dell’impresa familiare e i redditi loro imputati sono redditi di puro lavoro, non assimilabili a quello di impresa”.

Sotto l’aspetto processuale, inoltre, la configurabilità della natura individuale dell’impresa familiare e la posizione degli altri familiari, esclusivamente nei rapporti interni, “esclude peraltro che sia configurabile un’ipotesi di litisconsorzio necessario”.
Emiliano Marvulli
pubblicato Lunedì 27 Febbraio 2017
(www.fsicooggi.it)


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