Il rilascio dei beni ai creditori non scalfisce la plusvalenza
Pubblicato il 09/05/17 08:25 [Doc.2984]
di Redazione IL CASO.it


Né sono adottabili le norme su fallimento e concordato preventivo perché di stretta applicazione e di natura eccezionale, non suscettibili di interpretazione estensiva o analogica

Affrontando una questione inedita, la Ctp di Ferrara, con la sentenza 136/01/2017 del 10 aprile 2017, ha affermato che l'accesso alla procedura di liquidazione dell'eredità mediante rilascio dei beni ai creditori non priva gli eredi della titolarità del reddito e che il curatore non è comunque legittimato a chiedere il rimborso dell'imposta.
La Commissione esclude, inoltre, l'applicabilità analogica dell'articolo 86, comma 5, del Tuir, alla vicenda in esame.

La vicenda processuale
Il curatore di un'eredità beneficiata agiva in giudizio per ottenere il rimborso dell'Irpef versata dagli eredi dell'imprenditore in relazione alla plusvalenza generata dalla cessione dell'azienda, avvenuta nell'ambito di una liquidazione dell'eredità, mediante rilascio dei beni ai creditori (articoli 507 e seguenti del codice civile). Il ricorrente affermava il mancato possesso dei redditi per difetto di titolarità della fonte produttiva, atteso che, a seguito del rilascio, gli eredi si erano spogliati del potere dispositivo sull'azienda e non l'avevano concretamente amministrata. In subordine chiedeva di considerare non imponibile la plusvalenza realizzata, attraverso un'interpretazione estensiva, alternativamente, delle disposizioni in tema di determinazione del reddito nel fallimento (articolo 183, comma 2, Tuir[1]), con conseguente tassazione del solo (eventuale) residuo attivo, e di minusvalenze e plusvalenze realizzate in occasione della cessione dei beni ai creditori nel concordato preventivo (articolo 86, comma 5, Tuir[2]), che sono fiscalmente irrilevanti.
A tale risultato, secondo il contribuente, si poteva giungere valorizzando l'analogia strutturale e procedurale delle tre procedure (fallimento, concordato, rilascio) nonché il comune fine di tutela della par condicio creditorum.

L'ufficio si costituiva in giudizio e, preliminarmente, eccepiva il difetto di legittimazione attiva del curatore dell'eredità beneficiata, ritenendo sussistere il rapporto tributario soltanto in capo agli eredi del de cuius, unici soggetti titolati a richiedere il rimborso dell'imposta versata: la circostanza che il pagamento fosse avvenuto con somme addebitate sul conto corrente intestato all'eredità beneficiata, infatti, attiene alle vicende "privatistiche" della liquidazione e non è opponibile all'erario. Il reddito scaturente dalla cessione dell'azienda doveva invece ritenersi imputabile agli eredi, conformemente e proporzionalmente alle quote di partecipazione indicate nei rispettivi quadri RH.

L'accesso alla procedura di liquidazione beneficiata altro non rappresenta che una modalità di soddisfacimento dei creditori, che opera solo sul piano civilistico; del resto, se - ragionando per ipotesi - si fosse trattato di liquidazione individuale dell'eredità, il possesso del maggior reddito in capo ai due eredi, determinatosi da una "ordinaria" cessione dell'azienda, non sarebbe stato contestabile. In altre parole, non si vede perché l'accesso a una diversa procedura civilistica avrebbe dovuto consentire, peraltro nel silenzio della legge, il venir meno della riferibilità del soggetto ai risultati della cessione.

Infine, l'ufficio si opponeva alla possibilità di interpretare estensivamente le disposizioni dettate per il fallimento e per il concordato preventivo, in quanto di esenzione, eccezionali e di favore, e non certo norme di sistema, con conseguente applicabilità del noto principio secondo cui le norme agevolative sono di stretta interpretazione e, quindi, non suscettibili di interpretazione estensiva né - a maggior ragione - analogica.

La decisione della Ctp di Ferrara
La Commissione tributaria provinciale ha rigettato il ricorso e compensato le spese di lite in virtù dell'assoluta novità della questione, aderendo all'eccezione preliminare sollevata dall'ufficio concernente il difetto di legittimazione attiva.

Premesso che "la procedura di rilascio ex art. 507 c.c. è solo uno dei modi, del tutto volontari, a mezzo dei quali gli eredi possono, dopo avere accettato la eredità con beneficio di inventario, scegliere di liquidare il patrimonio dei de cuius", i giudici hanno osservato che, nel rilascio, l'erede abdica al solo potere di amministrazione dei beni facenti parte dell'eredità, ma mantiene intatte tutte le restanti facoltà e i restanti poteri collegati ai beni "che sono pur stati accettati, ivi compresa la legittimazione a contraddire rispetto alle pretese destinate a incidere sul suo patrimonio ereditario: come quelle dell'Erario".
Dal mero abbandono dell'amministrazione, che non integra atto traslativo della proprietà, consegue che l'erede "non perde la legittimazione processuale (e l'interesse) ad agire o a resistere in ordine alle pretese destinate ad incidere sul patrimonio ereditario (quali sono, tra le altre, quelle erariali), anche se nasce una legittimazione concorrente del curatore".

La Commissione, anziché ritenere assorbente il difetto di legittimazione attiva, ha esaminato anche nel merito i motivi di ricorso, statuendo che:
il "possesso" dei redditi non è accostabile al concetto civilistico di potere di fatto sulla cosa (articolo 1140 cc), ma comporta la riferibilità a un soggetto di determinate fonti di reddito e la titolarità del potere di disporne (Cassazione, pronuncia 433/2008). Tale è la situazione degli eredi nel caso di specie, che hanno la piena titolarità dei diritti ereditati "e hanno scelto, con atto dispositivo, di rilasciare la amministrazione di tali beni a un curatore nominato dal Tribunale"
l'invocata applicazione delle norme dettate in tema di fallimento e concordato preventivo sarebbe analogica ("essendo la ipotesi in commento affatto diversa e disomogenea da quelle normate, e non una manifestazione diversa della stessa ipotesi prevista dalla norma") e non consentita, in quanto trattasi di norme "di stretta applicazione e di natura eccezionale".
Osservazioni
La decisione della Ctp, che ha affrontato per la prima volta la questione (assolutamente inedita, sia in dottrina che in giurisprudenza) del trattamento fiscale della plusvalenza maturata nell'ambito della procedura di liquidazione dell'eredità beneficiata mediante rilascio dei beni ai creditori, appare pienamente condivisibile, perché coerente con quanto a più riprese stabilito dalla Corte di cassazione in merito agli effetti del rilascio.

Quest'ultima è una delle tre modalità di pagamento dei debiti ereditari, alternativa alla liquidazione individuale e a quella concorsuale ex articoli 498 e seguenti del codice civile.
Con il rilascio dei beni ai creditori, come chiarito dalla dottrina e dalla costante giurisprudenza della Cassazione, non si verifica un atto traslativo della proprietà, ma un semplice abbandono dell'amministrazione, che passa dall'erede (che non deve aver compiuto alcun atto di liquidazione) al curatore nominato dal tribunale. Attraverso il rilascio, gli eredi sono liberati dall'onere di curare, sotto la propria responsabilità, la liquidazione del patrimonio.

Citando ampi stralci della sentenza 11517/1997 della Cassazione, (cfr sentenza 4419/2008), la Commissione ha evidenziato che, se l'erede rimane proprietario dei beni ereditari pur dopo il rilascio, egli non perde la legittimazione processuale, anche se sorge una legittimazione concorrente del curatore.

Risultano condivisibili anche le ulteriori argomentazioni esposte ai fini del rigetto nel merito del ricorso, posto che il semplice accesso a una delle modalità di liquidazione dell'eredità non può comportare il venir meno del possesso dei redditi (cioè la titolarità della situazione giuridica soggettiva, la riferibilità a un soggetto dei risultati dell'attività) in capo agli eredi.

L'accoglimento della tesi della "titolarità della fonte", non univoca nella dottrina, alle vicende successorie, porterebbe alla conseguenza che l'erede non imprenditore potrebbe disporre dei beni pervenutigli in sostanziale e generalizzata esenzione da imposta. Invece, con la sua impostazione casistica, il Testo unico preclude di fare emergere la sostanza economica di un rapporto a dispetto della diversa qualificazione (formale) data dalle parti al rapporto stesso; se ciò vale nei confronti dell'Amministrazione finanziaria (a meno che non siano specificamente contestati fenomeni di simulazione, interposizione eccetera) non può che valere anche nei confronti del contribuente, il quale non può invocare un diverso assetto dei rapporti, che opera soltanto sul piano privatistico.

È, inoltre, corretta anche la tesi che non ritiene applicabili alla fattispecie le disposizioni in tema di concordato e fallimento (procedure che, peraltro, poiché nel caso di specie ne sussistevano i requisiti di cui agli articoli 1 e 15, 11 e 12 della legge fallimentare, risultavano applicabili).
In dottrina si suole affermare che, mentre tramite l'interpretazione estensiva si procede all'individuazione di tutte le ipotesi considerate dalla norma solo apparentemente estranee a causa della non espressa menzione (il legislatore minus dicit quam voluit), con l'analogia si tenta di porre rimedio a una pretesa lacuna normativa, creando una nuova regola: in quest'ultimo caso, deve trattarsi, però, di una lacuna "in senso tecnico", che non permetta cioè di applicare una legge.

L'articolo 86, comma 5, del Tuir, ipotesi più prossima a quella oggetto del giudizio (anche perché il fallimento produce un autentico spossessamento del patrimonio, ai sensi dell'articolo 43 della legge fallimentare; si confrontino, inoltre, quanto all'efficacia degli atti di disposizione "extraconcorsuale", gli articoli 44 della stessa legge, e l'articolo 507, comma 3, del codice civile), è costantemente interpretato dalla dottrina non come norma di sistema, bensì di esenzione, ispirata alla finalità di favorire l'accesso al concordato evitando che l'obbligazione tributaria possa gravare in capo a un soggetto che ha subito lo spossessamento di tutti i suoi beni e che, conseguentemente, non dispone dei mezzi per adempierla, o in capo ai creditori, che hanno già subito la falcidia concordataria (sulla ratio della disposizione vedi anche Cassazione, pronuncia 22168/2006).

Da ciò, la Commissione tributaria provinciale ha tratto l'applicabilità del consolidatissimo principio secondo cui le norme agevolative sono di stretta interpretazione (ex multis, Cassazione, pronunce 695/2015, 15537/2016 e, da ultimo, 6681/2017), rigettando il ricorso anche sotto tale profilo.


NOTE:
1) "Il reddito d'impresa […] è costituito dalla differenza tra il residuo attivo e il patrimonio netto dell'impresa o della società all'inizio del procedimento, determinato in base ai valori fiscalmente riconosciuti".
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2) "La cessione dei beni ai creditori in sede di concordato preventivo non costituisce realizzo delle plusvalenze e minusvalenze dei beni, comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento".
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Andrea Gaeta
pubblicato Lunedì 8 Maggio 2017


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