Non è necessaria la prova certa per contestare le fatture false
Pubblicato il 08/06/17 06:42 [Doc.3178]
di Redazione IL CASO.it


Il contribuente, invece, deve dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili e di non essere consapevole di partecipare a un’operazione fraudolenta

All’Agenzia delle Entrate non serve una prova certa per contestare le fatture false emesse a seguito di operazioni soggettivamente inesistenti, poiché la detrazione d’imposta può essere negata anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti.
Lo ha affermato la Cassazione, con l’ordinanza n. 12649 del 19 maggio 2017.

I fatti
Con avviso di accertamento emesso per l’anno di imposta 2000 nei confronti di una spa, l’ufficio ha recuperato a tassazione i costi relativi a operazioni soggettivamente inesistenti, negandone la detrazione ai fini Iva. Si trattava dei costi relativi a un contratto stipulato, l’8 marzo 1999, con una società austriaca e avente a oggetto:
a) la cessione, dalla società austriaca alla spa italiana, del marchio e del know how per la produzione della sostanza “diosmina” e del prodotto farmaceutico registrato che la conteneva, per il corrispettivo di 2 milioni e 500mila euro (da pagarsi, quanto a 500mila euro, alla data del 1° settembre 1999 e, per la somma residua, in altre cinque rate costanti di 400mila euro, a partire dal 1° maggio 2000)
b) l’obbligo della società italiana di acquistare per cinque anni dall’austriaca, o da altra società da questa nominata, il 50% della “diosmina” necessaria per produrre il farmaco, con un minimo di due tonnellate all’anno, al prezzo di 129,10 euro al chilo.

Con la collaborazione degli organi austriaci, l’ufficio aveva potuto accertare che la società austriaca non svolgeva alcuna attività in Austria, era interamente posseduta da altra società residente nelle Isole Vergini Britanniche, paese incluso nella lista dei “paradisi fiscali”, e risultava avere cessato la sua attività dopo l’intervento delle autorità austriache connesso all’indagine.
Per il prezzo di acquisto della sostanza, di molto superiore al prezzo di mercato in libera contrattazione (circa 67,14 euro al chilo), poi, l’ufficio aveva ritenuto che il maggior costo a favore della società austriaca fosse imputabile a corrispettivo occulto della transazione principale relativa all’acquisto del marchio e del know how e, quindi, trattandosi di costo afferente a un’operazione soggettivamente inesistente, ha negato la relativa detrazione Iva.

In entrambi i gradi, i giudici di merito hanno accolto le doglianze della società contribuente.
In particolare, la Commissione regionale ha affermato che la pretesa erariale si sarebbe dovuta fondare su “elementi e prove certe” che, nel caso in esame, non sussistevano.
L’Agenzia ha proposto ricorso per cassazione e la Corte lo ha accolto.

Osservazioni
I giudici di legittimità hanno prima censurato la motivazione della sentenza impugnata e poi hanno valutato il legittimo assolvimento dell’onere probatorio da parte dell’ufficio in materia di contestazione delle operazioni ritenute soggettivamente inesistenti.
La Cassazione ha dato atto che la Commissione regionale si era limitata a esprimere un giudizio negativo sul compendio probatorio offerto dall’amministrazione e a sostenere l’esistenza della società austriaca, senza individuare alcun elemento di fatto e di diritto su cui aveva inteso fondare la sua decisione e senza esporre le ragioni delle conclusioni raggiunte.
Né la sentenza poteva ritenersi legittimamente motivata per relationem. Il giudice d’appello, infatti, aveva fatto propria la pronuncia di primo grado, limitandosi ad aderire alla decisione impugnata, senza esprimere, nemmeno in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti.

Passando poi all’esame della ripresa relativa alle operazioni soggettivamente inesistenti, la Cassazione ha chiarito come l’onere della prova debba essere ripartito tra amministrazione e contribuente.
Ha ribadito, quindi, che, qualora l’amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture ai fini Iva, in quanto relative a operazioni inesistenti, spetta all’ufficio fornire la prova che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, non è mai stata posta in essere ovvero non è stata posta in essere tra i soggetti indicati nella fattura.
Il contribuente, invece, ha l’onere di dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili, e la sua mancanza di consapevolezza di partecipare a un’operazione fraudolenta, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili (cfr Cassazione, 428 e 28683 del 2015 e 12802/2011).

Tali principi risultano in linea con la giurisprudenza comunitaria, secondo la quale comunque l’amministrazione finanziaria non può esigere, dallo stesso destinatario della fattura, verifiche (circa la qualità di soggetto passivo Iva in capo al fatturante o la disponibilità dei beni oggetto di cessione) alle quali non è tenuto (cfr Corte giustizia, C- 285/11, C-642/11 e C-277/14).
Ma non senza eccezioni. A fronte di indizi che consentano di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione Iva, infatti, continua a prospettarsi un obbligo di verifica a carico del cessionario e, per l’amministrazione, l’obbligo di allegare e provare tali elementi oggettivi, anche con presunzioni come espressamente prevede l’articolo 54, comma 2, Dpr 633/1972 (cfr Cassazione, 15044 e 20059 del 2014 e 5404/2016; Corte giustizia, C-439/04, C-255/02, C -80/11, C- 285/11 e C-642/11).

Nella fattispecie esaminata, la Commissione regionale avrebbe dovuto valutare i caratteri di gravità, precisione e concordanza degli indizi addotti dall’ufficio, esaminandoli sia singolarmente sia nel loro complesso ed esponendo adeguatamente l’esito di tale giudizio nella motivazione della sentenza e, poi, avrebbe dovuto esaminare gli elementi probatori a discarico eventualmente offerti dalla società contribuente. Ma così non è stato.
Né è stata verificata, dal giudice d’appello, la sussistenza dei presupposti sostanziali richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria (e cioè l’esistenza delle operazioni fatturate) per l’esercizio del diritto alla detrazione. A tale riguardo, i giudici di legittimità hanno richiamato l’orientamento comunitario costante secondo il quale la neutralità Iva esige che la detrazione dell’Iva pagata a monte venga riconosciuta solo se sono soddisfatti tali requisiti sostanziali (e cioè quelli che stabiliscono il fondamento stesso e l’estensione del diritto di detrazione, Corte giustizia 28.07.2016, C-332/15).

E ciò vale anche per l’emissione di autofattura. Le registrazioni delle operazioni, infatti, pure nel caso di reverse charge esterno, assolvono una funzione sostanziale, in quanto, compensandosi a vicenda, con l’assunzione del debito avente a oggetto l’Iva a monte e la successiva detrazione dell’Iva a valle, comportano che non permanga alcun debito nei confronti dell’amministrazione e consentono i controlli e gli accertamenti fiscali sulle cessioni successive (cfr Cassazione, 24022/2013; per il reverse charge interno, Cassazione, 16679/2016).
Di conseguenza, nella fattispecie esaminata, l’emissione di autofattura riferita a un’operazione soggettivamente inesistente non poteva consentire di riconoscere la detrazione del relativo costo, non essendo stati soddisfatti gli obblighi sostanziali.

Romina Morrone
pubblicato Mercoledì 7 Giugno 2017


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