Costi black list: l’integrativa non sana le omissioni pregresse
Pubblicato il 19/10/17 00:27 [Doc.3824]
di Redazione IL CASO.it


Dal 2016 sono assoggettati alle regole ordinarie di deducibilità, ovvero ai requisiti di effettività, certezza e obiettiva determinabilità, oltre che competenza e inerenza
L’omessa indicazione nella dichiarazione dei redditi dei costi relativi alle operazioni intercorse con imprese localizzate in Paesi black list non può essere sanata da una dichiarazione integrativa presentata dopo la contestazione della violazione o dopo l’avvio di operazioni di verifica nei confronti del contribuente.
Con questa motivazione la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 22901 del 29 settembre 2017, ha accolto sul punto il ricorso dell’Agenzia delle entrate.

Il caso
La Ctr della Toscana, a conferma della pronuncia di primo grado, aveva dichiarato illegittimi gli avvisi di accertamento impugnati che muovevano dall’omessa separata indicazione in dichiarazione dei costi sostenuti dalla contribuente con una società residente a Hong Kong.
Sul punto, la società aveva fornito la prova di entrambe le esimenti ovvero l’effettività dell’acquisto (attraverso lo sdoganamento delle merci) e l’interesse economico alla sua esecuzione (ammontare dei ricarichi medi su operazioni similari).

Con il successivo ricorso in Cassazione, l’Agenzia delle entrate denunciava, tra l’altro, l’omessa pronuncia sulla propria domanda subordinata, di applicazione della sanzione di cui al comma 3-bis dell’articolo 8, del Dlgs 471/1997, pari al 10% dell’importo complessivo delle spese e dei componenti negativi non indicati nella dichiarazione dei redditi, con un minimo di 500 euro e un massimo di 50mila euro.

La pronuncia della Cassazione
Tale motivo è stato accolto, in quanto il giudice di appello sarebbe stato comunque tenuto, al fine di condurre a legalità l’avviso di accertamento anche da un punto di vista sanzionatorio, a pronunciarsi sulla domanda subordinata.
I giudici di legittimità ricordano, in proposito, che l’abolizione del previgente regime di indeducibilità dei costi relativi a operazioni commerciali intercorse con soggetti domiciliati in Paesi a fiscalità privilegiata (cosiddetti black list), prevista dall’articolo 1, commi 301, 302 e 303 della legge 296/2006, ha carattere retroattivo, sicché la deducibilità risulta subordinata solo alla prova dell’operatività dell’impresa estera contraente e della effettività della transazione commerciale, mentre la separata indicazione di detti costi è degradata a obbligo di carattere formale, passibile unicamente di sanzione amministrativa.

Ciò posto, secondo la Corte (che conferma un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità), è preclusa ogni possibilità di regolarizzazione attraverso la presentazione di una dichiarazione integrativa nell’ipotesi sia già avvenuta la contestazione della relativa violazione o siano state già avviate le operazioni di verifica. Infatti, qualora fosse possibile porre rimedio a tale irregolarità, “la correzione stessa si risolverebbe (Corte Cost. n. 392 del 2002) in un inammissibile strumento di elusione delle sanzioni predisposte dal legislatore per l’inosservanza della correlativa prescrizione”.

A conferma di tale tesi, è stato già osservato dalla Corte suprema che ammettere la possibilità per il contribuente di emendare la propria dichiarazione, attraverso la presentazione di una integrativa anche dopo l’avvio di un accesso, ispezione o verifica, sarebbe in contrasto con i principi costituzionali di efficienza e buon andamento dell’Amministrazione finanziaria.
Ciò, infatti, vanificherebbe “le attività ispettive e di controllo svolte dagli uffici finanziari, demandando al contribuente la scelta di evidenziare o meno nella dichiarazione fiscale i costi relativi ad operazioni indicate dal Legislatore come altamente sospette in relazione alla tipologia dei soggetti esteri con le quali vengono intrattenute” (cfr Cassazione, 6651/2016, 14999 e 15798 del 2015).

Del resto tale fattispecie (prima costitutiva del diritto alla deduzione del costo, ora solo fonte di sanzione formale) delinea un’ipotesi del tutto diversa ed eterogenea rispetto a quelle contemplate dall’articolo 2, commi 8 e 8-bis: invero, l’intervento emendativo non ha, in questo caso, la funzione di rideterminare correttamente componenti reddituali positivi o negativi, omessi o errati, o di correggere errori di calcolo (così incidendo direttamente sul quantum di crediti e debiti esistenti al momento della presentazione della dichiarazione), ma è volto inammissibilmente, a costituire ex novo un diritto alla deduzione di determinate spese prima inesistente, del quale, cioè, il contribuente non era già titolare (cfr Cassazione, 24929/2013, nonché le citate 14999, 15285 e 15798 del 2015 e 6651/2016).

Di conseguenza la sentenza della Ctr è stata cassata e, con decisione nel merito, la Cassazione ha stabilito l’applicabilità della sanzione fissa di cui al comma 1 dell’articolo 8, Dlgs 471/1997, in una sanzione proporzionale di cui al successivo comma 3-bis, pari al 10% dell’ammontare dei costi non separatamente indicati in dichiarazione (con un limite minimo di 500 euro e un limite massimo di 50mila euro).

Ulteriori osservazioni
L’articolo 110, comma 10, vigente ratione temporis prevedeva che “non sono ammessi in deduzione le spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con imprese residenti ovvero localizzate in Stati o territori diversi da quelli indicati nella lista di cui al decreto ministeriale emanato ai sensi dell’art. 168-bis”.
Con tale previsione il legislatore aveva stabilito il principio dell’indeducibilità dal reddito di impresa dei costi sostenuti con soggetti localizzati in Paesi a fiscalità privilegiata. Tale principio, tuttavia, non operava qualora il contribuente avesse dimostrato alternativamente:
che le imprese estere svolgevano prevalentemente un’attività commerciale effettiva
che le operazioni poste in essere rispondevano a un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione.
Il delineato regime di deducibilità era completato dall’obbligo, previsto sempre al comma 11 (e nel frattempo venuto meno), di indicare separatamente nella dichiarazione dei redditi i costi da Paesi black list.
Con risoluzione n. 12/E del 17 gennaio 2006, l’Agenzia delle entrate chiariva che “La separata indicazione dei componenti negativi in esame costituisce, quindi, condizione autonoma e necessaria, anche se non sufficiente, ai fini della deducibilità degli stessi, come peraltro già precisato nella risoluzione n. 46/E del 16 marzo 2004”.
La legge finanziaria 2007, in vigore dal 1° gennaio 2007, modificava parzialmente la disciplina di tale obbligo dichiarativo, per la cui violazione è stata, inoltre, prevista una specifica ipotesi sanzionatoria.
In particolare, l’articolo 1, comma 301, della predetta legge finanziaria, modificava l’articolo 110, comma 11 del Tuir, nel senso di prevedere semplicemente che “Le spese e gli altri componenti negativi deducibili ai sensi del primo periodo sono separatamente indicati nella dichiarazione dei redditi”, essendo stata soppressa la disposizione secondo cui la deduzione dei citati costi era “comunque subordinata alla separata indicazione nella dichiarazione dei redditi dei relativi ammontari dedotti”.

Per effetto delle modifiche disposte dalla legge finanziaria 2007, l’esposizione in dichiarazione dei costi da Paesi black list, pur conservando natura obbligatoria, cessava di costituire una condizione per la deducibilità dei costi medesimi, come, invece, disponeva la previgente formulazione dell’articolo 110, comma 11 del Tuir.
A fronte della violazione del citato obbligo dichiarativo, il comma 302 dell’unico articolo della legge finanziaria 2007, aggiungendo il comma 3-bis all’articolo 8 del Dlgs 471/1997, ha introdotto – in luogo della previgente indeducibilità dei relativi costi – una specifica sanzione, “pari al 10 per cento dell’importo complessivo delle spese e dei componenti negativi non indicati nella dichiarazione dei redditi, con un minimo di euro 500 ed un massimo di euro 50.000”.

La legge finanziaria 2007, al successivo comma 303, ha infine disposto l’applicazione della nuova sanzione anche alle “violazioni commesse prima della data di entrata in vigore della presente legge (1° gennaio 2007) sempre che il contribuente fornisca la prova di cui all’articolo 110, comma 11, primo periodo, del citato testo unico delle imposte sui redditi. Resta ferma in tal caso l’applicazione della sanzione di cui all’articolo 8, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471”.
Per le violazioni commesse prima dell’entrata in vigore della legge finanziaria 2007, pertanto, l’omissione dell’obbligo dichiarativo non è più di ostacolo alla deducibilità dei costi, qualora il contribuente sia in grado di provare che ricorrono le esimenti previste dall’articolo 110, comma 11 del Tuir.

La ratio della richiamata modifica normativa è rinvenibile, per un verso, nell’attenuazione del trattamento sanzionatorio derivante dalla mancata separata indicazione in dichiarazione dei costi in esame; per altro verso, nell’interesse a salvaguardare, in aggiunta all’aspetto sostanziale della effettività e delle ragioni economiche delle operazioni, la funzione preordinata ai controlli che l’obbligo dichiarativo continua a rivestire.
In tema di ripartizione dell’onere della prova, la Corte suprema (cfr sentenza 26298/2010) ha inteso ricordare come l’articolo 110 del Tuir (vigente ratione temporis) “nonostante le successive modifiche intervenute, è rimasto immutato quanto al fondamentale divieto di deduzione di questo genere di spese; ed al conseguente onere (peraltro positivamente sancito: «quando le imprese residenti forniscano la prova») della parte privata di provare, nel proprio interesse, la sussistenza delle condizioni per cui il divieto può essere derogato”.
In altri termini, è lo stesso legislatore a prevedere espressamente che le imprese, le quali sostengano costi relativi a operazioni intercorse con paesi black-list, debbano dimostrare l’esistenza delle condizioni che ne consentono la deducibilità. La formulazione della norma, infatti, non dà adito a dubbi sulla circostanza che spetti al contribuente fornire la prova dell’esistenza di una delle esimenti richieste dalla norma.

La Corte di Cassazione, alla luce di tali valutazioni, ha concluso affermando il principio che “all’amministrazione finanziaria è sufficiente invocare il divieto legale di deduzione, mentre spetta al contribuente dimostrare l’esistenza delle condizioni per cui esso non sarebbe applicabile al proprio caso. D’altra parte, l’onere di provare la deducibilità di un costo spetta all’impresa, secondo consolidata giurisprudenza, anche quando la deduzione non è vietata in linea di principio (Cass. nn. 3305/2009, 4218/2006, 21474/2004, 11240/2002, 16198/2001, 12330/2001, 11514/2001)”.

Dal 2016, le disposizioni relative alla deducibilità dei costi black list hanno assunto una veste completamente nuova: ciò in virtù dell’articolo 1, comma 142, della legge di stabilità per il 2016 definitivamente approvata. Le modifiche – si legge nella relazione illustrativa all’emendamento – sono finalizzate a rendere il nostro Paese maggiormente attrattivo e competitivo sia per le imprese, italiane o straniere, che intendono operare in Italia, sia per le imprese italiane che vogliono operare all’estero senza subire svantaggi competitivi.

A pochi mesi dalle modifiche operate dal decreto internazionalizzazione (Dlgs 147/2015) la disciplina che limita la deducibilità dei costi derivanti da operazioni intercorse con fornitori localizzati in “paradisi fiscali” (articolo 110, commi da 10 a 12-bis del Tuir) è stata abrogata a partire dall’anno 2016. La legge di stabilità per il 2016 ha infatti previsto, all’articolo 1, comma 70-bis, l’abrogazione dei commi da 10 a 12-bis dell’articolo 110 del Tuir. Di conseguenza tali costi sono ora deducibili in base alle ordinarie regole del Tuir.

L’articolo 4 del decreto di crescita e internazionalizzazione (Dlgs 147/2015) era intervenuto modificando la disciplina in merito alla deducibilità dei costi derivanti da operazioni intercorse con soggetti residenti, ovvero localizzati in Stati o territori aventi regimi fiscali privilegiati di cui all’articolo 110, commi da 10 a 12-bis, Tuir: in particolare, con tale modifica, veniva riconosciuta sempre la deducibilità dei costi black-list entro il limite del valore normale di beni e servizi acquistati in base a operazioni che hanno avuto concreta esecuzione. Inoltre, si prevedeva la possibilità di dedurre i suddetti costi a prescindere dalla circostanza che l’impresa estera svolgesse prevalentemente un’attività commerciale effettiva.

In altri termini l’articolo riscriveva la disciplina dei costi black-list a decorrere dal periodo di imposta in corso al momento della sua entrata in vigore (2015).

Ora la legge di stabilità per il 2016 ha previsto l’eliminazione di tutte le disposizioni correlate al regime di determinazione della deducibilità dei costi per operazioni intercorse con soggetti residenti in stati aventi regime fiscale privilegiato. Dal 2016, i costi black list sono assoggettati alle ordinarie regole di deducibilità previste dal Tuir, ovvero alla luce di quei requisiti di effettività, certezza e obiettiva determinabilità, oltre che competenza e inerenza previsti dall’articolo 109 del Tuir.
Francesco Brandi
pubblicato Martedì 17 Ottobre 2017


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