Avvocato d'ufficio, imputato minorenne e richiesta di pagamento del compenso ai genitori
Pubblicato il 25/07/18 08:51 [Doc.4993]
di Redazione IL CASO.it


Avvocato nominato d'ufficio - Imputato minorenne - Richiesta di liquidazione del compenso ai genitori del minore - Conseguenze.

Integra illecito disciplinare la condotta dell'avvocato d'ufficio del minore che richieda ai genitori in qualità di legali rappresentanti, il pagamento dei compensi per l'attività difensiva svolta, senza attivare la procedura di liquidazione prevista dall'art. 82 del d.P.R. n. 115 del 2002, che, ai sensi dell'art. 118 d.P.R. cit., costituisce l'unico necessario strumento per ottenere il compenso, indipendentemente dalla circostanza che il minore possieda, o meno, i requisiti per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato.


Cass. civ., Sez. Unite, 27 giugno 2018, n. 16977

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MAMMONE Giovanni - Primo Presidente f.f. -
Dott. CAPPABIANCA Aurelio - Presidente di Sez. -
Dott. VIVALDI Roberta - Presidente di Sez. -
Dott. VIRGILIO Biagio - Presidente di Sez. -
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria - Consigliere -
Dott. GRECO Antonio - Consigliere -
Dott. TRIA Lucia - Consigliere -
Dott. GARRI Fabrizia - Consigliere -
Dott. VINCENTI Enzo - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Svolgimento del processo
1. - Il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Milano, avendo riconosciuto l'avvocato A.M. responsabile di una serie di addebiti disciplinari, gli inflisse la sanzione della sospensione dall'esercizio della professione per la durata di quattro mesi.
2. - Su impugnazione del A., il Consiglio Nazionale Forense (CNF), con sentenza resa pubblica il 1 dicembre 2017, proscioglieva l'incolpato da taluni addebiti, ne confermava la responsabilità per altri e riduceva alla durata di mesi due l'irrogata sanzione della sospensione dall'esercizio della professione.
2.1. - Il CNF, segnatamente, reputava sussistenti, anzitutto, gli addebiti di contrarietà ai doveri di correttezza, diligenza e lealtà per la mancata partecipazione del A. alle udienze del 13 novembre 2008, 4 febbraio 2009 e 24 marzo 2009, dinanzi alla 10 sezione penale del Tribunale di Milano, sia quale difensore di fiducia di K.A., che in veste di difensore d'ufficio (per le prime due udienze) e poi di fiducia (per la terza udienza) di S.D., senza addurre un giustificato motivo, nè provvedere alla nomina di un sostituto.
2.2. - Inoltre, il CNF riteneva l'incolpato responsabile di esser venuto meno ai doveri di probità e decoro per avere, in qualità di difensore d'ufficio del minore L.M., richiesto un compenso per l'attività professionale, che avrebbe dovuto essere svolta con onorari a carico dello Stato.
3. - Per la cassazione di tale sentenza ricorre l'avvocato A.M., affidando le sorti dell'impugnazione a tre motivi.
Il Pubblico Ministero ha concluso come in epigrafe.
Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli intimati Consiglio dell'ordine degli Avvocati di Milano e il CNF.

Motivi della decisione
1. - E' inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Consiglio Nazionale Forense, che, in quanto soggetto terzo rispetto alla controversia e autore della impugnata decisione, è privo di legittimazione nel presente giudizio, le parti del quale vanno individuate nel soggetto destinatario del provvedimento impugnato, cioè nel Consiglio dell'Ordine degli Avvocati locale che, in sede amministrativa, ha deciso in primo grado e nel Pubblico Ministero presso la Corte di Cassazione (tra le tante, Cass., sez. un., 24 febbraio 2015, n. 3670; Cass., sez. un., 27 dicembre 2016, n. 26996; Cass., sez. un., 18 aprile 2018, n. 9558).
2. - Con il primo mezzo è denunciata violazione o falsa applicazione degli artt. 6 e 8 del codice deontologico forense (cdf) e 26, n. 4, del nuovo codice deontologico forense (ncdf).
Il CNF avrebbe errato a reputare inidonea ad elidere la valenza disciplinare del fatto addebitato la circostanza che la mancata presenza alle udienze era dovuta a precisa strategia processuale, non avendo esso A. ricevuto la notificazione del decreto di citazione a giudizio "nell'interesse del proprio assistito" (in particolare, del S., del quale veniva dapprima nominato difensore d'ufficio e poi di fiducia), così da non partecipare alla prima udienza in attesa del rinnovo della notificazione di detto decreto.
Inoltre, il giudice disciplinare avrebbe violato gli artt. 26 ncdf e 36 (recte: 38) cdf, che sanzionano unicamente il comportamento del difensore d'ufficio.
Infine, il CNF non avrebbe correttamente valutato l'assenza di mala fede di esso A. - che escluderebbe la violazione dei doveri di lealtà e correttezza -, giacchè le assenze erano da giustificarsi per la concomitanza di altri impegni professionali, improvvisamente sopravvenuti, là dove, peraltro, con specifico riferimento all'udienza del 29 marzo 2009, "il cancelliere gli aveva anticipato che i procedimenti sarebbero stati rinviati per malattia del giudice" e, al tempo stesso, era stato "notiziato di un interrogatorio urgente presso i carabinieri di Lorenteggio".
2.1. - Il motivo è inammissibile.
In disparte, per ora, la questione (che sarà delibata con il terzo motivo di ricorso) concernente l'individuazione delle disposizioni del codice deontologico effettivamente applicabili nella specie, ai sensi dell'art. 65, comma 5, della legge n. 247 del 2012 (sebbene risulti comunque evidente la sovrapposizione tra i precetti, vecchi e nuovi, richiamati dal ricorrente), occorre rammentare (sulla scorta di orientamento consolidato di questa Corte: tra le altre, Cass., sez. un., 4 febbraio 2009, n. 2637, Cass., sez. un., 25 giugno 2013, n. 15783, Cass., sez. un., 2 dicembre 2012, n. 24647, Cass., sez. un., 3 marzo 2018, n. 8038) che la violazione di detto codice, in quanto raccoglie disposizioni non aventi valore e forza di legge, ma integrativo dei precetti normativi, rileva in sede giurisdizionale non in sè, ma solo quando si colleghi alle ragioni (incompetenza, eccesso di potere o violazione di legge) per le quali l'art. 56, terzo comma, del r.d.l. n. 1578 del 1933 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 36 del 1934), consente il ricorso alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, per censurare unicamente un uso del potere disciplinare da parte degli ordini professionali per fini diversi da quelli per cui la legge lo riconosce.
Sicchè, il controllo di legittimità non può avere ad oggetto l'accertamento del fatto, l'apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali effettuati dal CNF, salvo che tutto ciò si traduca in un palese sviamento di potere.
Per altro verso, il sindacato pur consentito sulle decisioni del CNF ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 360 c.p.c. riguarda, nella specie, quello previsto dal n. 5 dello stesso art. 360, nella vigente formulazione applicabile ratione temporis, ossia per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ciò secondo la prospettiva ermeneutica indicata da queste Sezioni Unite con la sentenza n. 8053 del 7 aprile 2014 (e, poi, dalle numerose pronunce successive conformi di questa Corte) e, dunque, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale (ossia la "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", la "motivazione apparente", il "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e la "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile") che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Così orientato lo scrutinio delle censure, esse si mostrano palesemente rivolte ad una rivalutazione dei fatti e degli apprezzamenti del giudice disciplinare (segnatamente, quanto alla presunta giustificazione della mancata partecipazione alle udienze), ad essi sovrapponendo la lettura delle risultanze processuali operata dallo stesso ricorrente, senza che sia evidenziato un omesso esame di fatto, storico, decisivo, nè una qualsivoglia anomalia motivazionale (in ogni caso non ravvisabile nella sentenza impugnata), siccome riconducibile alle ipotesi paradigmatiche innanzi richiamate.
E ciò a prescindere dall'inconsistenza stessa della doglianza relativa alla presunta limitazione del precetto disciplinare al solo comportamento del difensore d'ufficio che non presenzi all'udienza senza giustificazione idonea, giacchè, a tacer d'altro (ossia del fatto che detto comportamento può integrare la violazione del dovere di diligenza imposto dalla stessa legge professionale: art. 3, comma 3, della legge n. 247 del 2012), sia nel vecchio (art. 38), che nel nuovo codice deontologico (art. 26), la violazione dei "doveri professionali" viene a concretarsi in ragione dell'inescusabile "mancato, ritardato o negligente compimento di atti inerenti al mandato", quale locuzione, quest'ultima, da intendersi ricomprensiva della necessaria attività processuale del difensore nominato.
3. - Con il secondo, articolato, mezzo è dedotta violazione o falsa applicazione degli artt. 5, 6 cdf, 9, 29, n. 8, ncdf, 118 e D.P.R. n. 115 del 2002, art. 85.
Il CNF avrebbe errato a ritenere che la difesa d'ufficio del minore L. (svoltasi come assistenza alla convalida dell'arresto, proposizione del ricorso al Tribunale della libertà contro la misura cautelare applicata e assistenza al giudizio immediato) - per la quale esso avvocato chiedeva il pagamento di un compenso complessivamente pari ad Euro 1.085,00 - non dovesse essere retribuita (come, del resto, previsto dall'art. 31 disp. att. c.p.p. e dal combinato disposto degli artt. 369-bis c.p.p., lett. d), e L. n. 217 del 1990, art. 8), operando così un inammissibile sillogismo tra difesa d'ufficio e patrocinio a spese dello Stato, al quale beneficio il minore non avrebbe potuto accedere per ragioni reddituali, nè, in ogni caso, l'ammissione del quale era mai stata richiesta.
Di qui, pertanto, l'insussistenza della violazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 85 e, con essa, quella dei doveri professionali di probità e decoro.
Doveri, questi, che, comunque, non potevano dirsi violati in ragione del fatto che, contrariamente a quanto desunto dal CNF dal combinato disposto di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82, 116 e 118, esso avvocato A. (non iscritto nell'elenco degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato) non era stato mai destinatario di una liquidazione giudiziale e di un decreto di pagamento del compenso (che non poteva confondersi con il decreto ingiuntivo ottenuto a tal fine dal Giudice di pace di Milano) per l'attività professionale prestata in favore del minore L. (mai ammesso al predetto beneficio di legge), nè nei confronti di quest'ultimo (bensì dei suoi genitori) aveva avanzato richiesta di pagamento, senza peraltro in ciò utilizzare modi "sgarbati" o minacciosi.
3.1. - Il motivo è infondato.
Il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 85, inserito nel Capo 4 del Titoli 1 della Parte Terza di detto d.P.R., pone al difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato il divieto di "chiedere e percepire dal proprio assistito compensi o rimborsi a qualunque titolo, diversi da quelli previsti dalla presente parte del testo unico" (comma 1); divieto la cui violazione "costituisce grave illecito disciplinare professionale" (comma 3).
Il Titolo 3 della stessa Parte Terza del D.P.R. n. 115 del 2002 estende, a taluni "limitati effetti", la disciplina del patrocinio a spese dello Stato prevista per il processo penale alla liquidazione dell'onorario e delle spese al difensore d'ufficio del minore, come previsto dall'art. 118 dello stesso d.P.R..
A differenza dell'estensione contemplata dal precedente art. 116 per la liquidazione di onorario e spese al difensore d'ufficio (da intendersi, per un rapporto di reciproca esclusione tra norme, quello di persona maggiorenne), che è ammessa solo "quando il difensore dimostra di aver esperito inutilmente le procedure per il recupero dei crediti professionali" e, quindi, dopo essersi rivolto (inutilmente) alla parte assistita, la previsione del citato art. 118 impone all'avvocato d'ufficio del minore di avvalersi della procedura di liquidazione di cui all'art. 82 del medesimo D.P.R. n. 115, dovendo, pertanto, essere l'autorità giudiziaria a provvedere alla liquidazione di onorari e spese.
Tale necessaria procedura - che è consentanea rispetto al "diritto alla retribuzione del difensore di ufficio" (art. 31 disp. att. c.p.p.) - prescinde dalla circostanza che il minore possa, o meno, essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato, quale verifica che la stessa norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 118 prevede a valle del provvedimento giudiziale di liquidazione in favore del difensore d'ufficio.
Ne consegue che è corretta la decisione del CNF di ritenere sussistente la violazione (integrante, come detto, "grave illecito disciplinare") dell'art. 85 dello stesso D.P.R. n. 115 del 2002 - la cui disciplina attiene espressamente ai "compensi e rimborsi" della Parte Terza del medesimo D.P.R. n. 115, nella quale Parte è, per l'appunto, ricompresa anche la regolamentazione del citato art. 118 - integrata dalla condotta dell'avvocato A., che, nella qualità di difensore d'ufficio del minore L. nel procedimento penale a carico di quest'ultimo, ha chiesto ai genitori, legali rappresentanti, del medesimo minore il pagamento dei compensi per l'attività difensiva svolta, senza attivare, invece, la procedura di liquidazione anzidetta, quale unico necessario strumento per ottenere il compenso ad esso spettante, posto soltanto a carico dello Stato.
4. - Con il terzo mezzo è prospettata violazione degli artt. 5, 6 e 38 cdf, nonchè 9, 26 e 29 ncdf.
Il CNF, in punto di applicazione della sanzione, avrebbe errato ad applicare le norme del nuovo codice deontologico (che all'art. 29, n. 8, prevedevano la sospensione dall'esercizio della professione) in luogo di quelle vigenti al momento del fatto, che non tipizzavano la sanzione applicabile e, dunque, si palesavano più favorevoli; sicchè, la sanzione irrogabile era semmai quella della censura, da ritenersi quella più adeguata ai fatti contestati.
Così come avrebbe errato il giudice disciplinare a non applicare la norma sulla prescrizione degli illeciti disciplinari "anteriore alla riforma del codice deontologico", in forza della quale, "tenuto conto delle sospensioni operate" e dell'epoca dei fatti contestati (anni 2008 e 2009), la prescrizione sarebbe maturata.
4.1. - Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
4.1.1. - E' infondato là dove nella sostanza (e al di là dell'inammissibile evocazione, per le ragioni innanzi dette, delle sole disposizioni del codice deontologico) postula, ai fini dell'applicazione della disposizione più favorevole ai sensi della L. n. 247 del 2012, art. 65, comma 5, che non potesse essere applicabile la sanzione della sospensione dall'esercizio della professione forense perchè prevista soltanto dal nuovo codice deontologico, all'art. 29, n. 8, e non già al momento della commissione degli illeciti disciplinari, epoca in cui si assume non essere le sanzioni tipizzate.
Anzitutto, il ricorrente evoca, ai predetti fini, la centralità della disposizione dell'art. 29, n. 8, ncdf, che, però, non appare pertinente rispetto all'incolpazione che lo riguarda, poichè la disposizione concerne espressamente il difensore nominato dalla parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato e non il difensore d'ufficio del minore, mentre, come detto, l'individuazione della condotta di indebita richiesta di compensi, costituente nella specie illecito disciplinare, si rinviene nel combinato disposto del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 116 e 85.
Inoltre, la doglianza pretermette il dato, essenziale, della pluralità dei comportamenti che sono stati oggetto di valutazione disciplinare (oltre a quello anzidetto, anche la mancata partecipazione alle udienze) e ai quali, complessivamente, il CNF ha adeguato (art. 20 ncdf) la sanzione della sospensione dall'esercizio della professione per la durata di mesi due, ossia nel limite edittale minimo contemplato sia dal R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 40, vigente all'epoca dei fatti illeciti disciplinari ascritti, sia dall'art. 22 ncdf, in forza della base legale di cui alla L. n. 247 del 2012, art. 53, vigente al momento della decisione del CNF. Con l'ulteriore conseguenza, quindi, dell'insussistenza, nel passaggio dal "vecchio" al "nuovo" regime, di una disciplina sanzionatoria in concreto (così come occorre individuare la lex mitior: Cass., sez. un., 27 dicembre 2017, n. 30993) più favorevole per l'avvocato A..
4.1.2. - E' inammissibile, poi, la censura con cui si intende aggredire la scelta della sanzione più opportuna, che spetta al giudice disciplinare in base all'apprezzamento della gravità del fatto e della condotta addebitata all'incolpato, non essendo prospettato alcun vizio sindacabile in questa sede (alla stregua del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 56 e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ma soltanto una diversa, e non consentita, valutazione del ricorrente stesso in funzione della predetta scelta.
4.1.3. - E', infine, infondata la doglianza con la quale si sostiene essere maturata la prescrizione degli illeciti disciplinari.
Nel giudizio disciplinare a carico di avvocato, l'eccezione di prescrizione dell'azione disciplinare può essere sollevata, per la prima volta, con il ricorso per cassazione avverso la decisione del CNF, ove il relativo esame non comporti indagini fattuali (Cass., sez. un., 11 marzo 2004, n. 5038, Cass., sez. un., 9 ottobre 2013, n. 22956).
Sulla scorta, dunque, delle sole circostanze di fatto evidenziate dalla sentenza del CNF impugnata in questa sede (e non affatto smentite dal ricorso del A.), risulta che, rispetto a condotte costituenti illecito disciplinare poste in essere nel periodo novembre 2008/novembre 2009, l'apertura dei relativi procedimenti disciplinari si aveva nell'ottobre 2009, nel giugno 2010 e nel gennaio 2011, mentre la decisione del Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Milano veniva resa pubblica il 5 dicembre 2012 e il successivo 20 dicembre 2012 l'avvocato A. la impugnava dinanzi al CNF. Da siffatti elementi emerge in modo evidente che la prescrizione quinquennale di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 51 (applicabile in relazione al momento di contestazione degli addebiti: Cass., sez. un., 18 aprile 2018, n. 9558;) non può dirsi affatto maturata (e, del resto, neppure lo sarebbe stata in applicazione della L. 247 del 2012, art. 56), tenuto conto degli atti interruttivi istantanei della fase del procedimento disciplinare di carattere amministrativo dinanzi al Consiglio dell'ordine e di quelli ad effetto permanente della fase giurisdizionale davanti al CNF (Cass., sez. un., 2 aprile 2003, n. 5072; Cass., sez. un., 3 febbraio 2004, n. 1905).
5. - Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile nei confronti del Consiglio Nazionale Forense e rigettato per il resto.
Non occorre provvedere alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità, in assenza di attività difensiva della parte ritualmente intimata.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso nei confronti del Consiglio Nazionale Forense e lo rigetta per il resto.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del citato art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezioni Unite Civili della Corte suprema di Cassazione, il 5 giugno 2018.
Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2018.


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