Impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità e prova della assoluta impossibilità di concepimento
Pubblicato il 20/09/18 00:00 [Doc.5156]
di Redazione IL CASO.it


FILIAZIONE NATURALE - RICONOSCIMENTO - FIGLI PREMORTI - CLAUSOLE LIMITATRICI -Impugnazione per difetto di veridicità - Disconoscimento di paternità - Diversità degli oneri probatori - Esclusione - Ragioni.

In tema di azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, stante la nuova disciplina introdotta dalle riforme del 2012 e 2013 in materia di filiazione, la prova della "assoluta impossibilità di concepimento" non è diversa rispetto a quella che è necessario fornire per le altre azioni di stato, richiedendo il diritto vigente che sia il "favor veritatis" ad orientare le valutazioni da compiere in tutti i casi di accertamento o disconoscimento della filiazione


Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 2018, n. 18140

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio - Presidente -
Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. - rel. Consigliere -
Dott. NAZZICONE Loredana - Consigliere -
Dott. PAZZI Alberto - Consigliere -
Dott. DI MARZIO Paolo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Svolgimento del processo
D.R. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Ancona la figlia minore D.E. impugnando per difetto di veridicità il riconoscimento della paternità da lui prestato davanti all'Ufficiale dello stato civile, ed affermava che in realtà D.E. era nata dall'unione della madre, S.P., con altro uomo, di cui ha indicato l'identità in maniera non certa, individuandolo in "tale sig. B.". Nella resistenza di madre e figlia, quest'ultima rappresentata dal curatore speciale nominato dal GT, il Tribunale adito, espletata prova testimoniale e disposta prova ematologica, non eseguita per il rifiuto della figlia a sottoporsi al prelievo, rigettava la domanda.
La decisione veniva confermata con sentenza n. 774/15 - emessa a seguito della riassunzione del giudizio, già interrotto per il decesso della madre - dalla Corte d'Appello di Ancona che, dopo aver rilevato come l'azione di impugnazione del riconoscimento della paternità, per difetto di veridicità, postulasse, a norma dell'art. 263 c.c., la dimostrazione dell'assoluta impossibilità del rapporto di paternità biologica, in ciò differendo dall'azione di riconoscimento, soggetta a minor rigore probatorio, rilevava che la relazione del D. con la S. e la loro convivenza al tempo del concepimento, in un appartamento da lui allestito, risultava incontroversa, aggiungeva che il riconoscimento di paternità era avvenuto in prossimità della nascita di E., e che nel corso degli anni il D. aveva anche intrapreso azioni giudiziarie volte a tutelare la propria potestà genitoriale, pur se il rapporto con la figlia era stato sempre connotato da gravi difficoltà di relazione, anche per l'ostilità della S., e tanto costituiva una ragione idonea a giustificare il comportamento processuale della figlia ed il suo rifiuto a sottoporsi all'esame ematologico, comportamento ritenuto, comunque, non decisivo, in assenza della prova della relazione della madre con altri uomini nel periodo del concepimento. D.R. ha proposto ricorso per cassazione, in base a due motivi, resistiti con controricorso da D.E.. All'esito dell'adunanza del 23.2.2017, la causa è stata rinviata alla pubblica udienza. Le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, si deduce: "Erroneità della sentenza impugnata per violazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5 nel punto in cui evidenzia l'assenza assoluta di prova del fatto che nel periodo del verosimile concepimento di D.E. la madre naturale ( S.P.) frequentasse altre persone con particolare riferimento a tale sig. B. (punto n. 5 pagg. 3 e 4 sentenza impugnata). Violazione e falsa applicazione dell'art. 360 c.p.c., n. 5 nel punto in cui ritiene pacifiche tra le parti le circostanze indicate in sentenza (punto n. 4 pag. 3 sentenza impugnata)".
2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce: "Erroneità e nullità della sentenza impugnata ex art. 360 c.p.c., n. 3 e erroneità della sentenza impugnata ex art. 360 c.p.c., n. 4 per violazione e falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c. per aver ritenuto la Corte territoriale che il rifiuto di sottoporsi ai prelievi ematici sia insufficiente ad affermare la non veridicità del riconoscimento. Erroneità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione e falsa applicazione del disposto normativo di cui dell'art. 263 c.c. Contraddittorietà manifesta; erronea valutazione dei documenti di causa (punti n. 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13 sentenza impugnata)".
3. I motivi, da valutarsi congiuntamente per la loro connessione, vanno rigettati, pur se va, in parte, corretta la motivazione.
4. Occorre, infatti, rilevare che il principio, affermato da giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 17095 del 2013; n. 17970 del 2015) e da cui muove l'impugnata sentenza, secondo cui l'azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità postula, a norma dell'art. 263 c.c., la dimostrazione della assoluta impossibilità che il soggetto, che abbia inizialmente compiuto il riconoscimento, sia, in realtà, il padre biologico del soggetto riconosciuto come figlio, è stato, condivisibilmente, rimeditato da questa Corte, che, con la recente sentenza n. 30122 del 14.12.2017, ha evidenziato come siffatta dimostrazione non sia dettata dalla legge, nè, alla luce dell'evoluzione del diritto positivo e della concezione sociale dei valori (valga al riguardo la significativa abolizione della qualificazione come "legittima" o "naturale" della filiazione), siano più attuali le ragioni che le avevano dato origine, sostanzialmente fondate sul disvalore di un concepimento al di fuori del matrimonio, e dunque sulla ritenuta natura confessoria del riconoscimento della susseguente nascita, assunta, appunto, come una "colpa" di chi lo aveva effettuato.
5. Non vi è, dunque, più ragione di esigere che la prova in materia di impugnazione del riconoscimento debba esser diversa rispetto all'istituto affine, anch'esso volto alla rimozione dello status filiationis, del disconoscimento della paternità, dato che, in entrambe le ipotesi, si determina la privazione sopravvenuta di tale status per cause estranee alla sfera di volontà e responsabilità del soggetto destinato a subirne gli effetti, dovendo perciò concludersi che le valutazioni da compiere in tutti i casi di accertamento o disconoscimento della filiazione debbano essere orientate dal favor veritatis, come comprova il fatto che la riforma del 2012 e 2013 ha avvicinato le discipline e come può desumersi dalla sentenza n. 272 del 18.12.2017 della Corte Cost. che non lo ha ritenuto recessivo rispetto alla valutazione dell'interesse del minore, imposta da fonti interne e sovranazionali, alla conservazione dello status.
6. Pur al lume di tali principi, la sentenza resiste alle critiche che le vengono mosse.
7. Col primo motivo, volto ad infirmare la conclusione del giudice territoriale, secondo cui nel periodo del concepimento (settembre 1983) non vi era prova di relazioni della madre con altre persone, ed, in particolare, col tal B., il ricorrente sottolinea, anzitutto, come la S. fosse ancora coniugata con V.A., sicchè sussisteva la presunzione di concepimento durante il matrimonio, e: a) censura la mancata ammissione di tutti i capitoli di prova testimoniale volti a dimostrare che la madre "manteneva rapporto con altre persone" durante la convivenza con esso ricorrente, che, peraltro, frequentava la casa della donna sporadicamente; b) lamenta il mancato apprezzamento dell'intera deposizione della teste M.I. e la mancata ammissione della teste de relato Q.E.; c) contesta che siano pacifiche le circostanze indicate al punto 4 di pag. 3 della sentenza.
8. Va premesso che, ad onta della formulazione poco ortodossa, sottolineata dalla controricorrente, la deduzione di più censure nell'ambito di un unico motivo è ammissibile: l'indicazione delle norme di legge che si assumono violate non costituisce, infatti, un requisito autonomo ed imprescindibile del ricorso, ma è solo funzionale a chiarirne il contenuto e a identificare i limiti della censura formulata, sicchè la relativa omissione può comportare l'inammissibilità della singola doglianza solo nel caso, qui non ricorrente, in cui gli argomenti addotti non consentano di individuare le norme e i principi di diritto asseritamente trasgrediti, e di delimitare le questioni sollevate (Cass. n. 21819 del 2017; n. 25044 del 2013).
9. Le sub-censure sono, ciononostante, tutte inammissibili per le seguenti ragioni.
10. Premesso che della questione relativa al rapporto di coniugio della madre al tempo del concepimento e della presunzione di legittimità della figlia la sentenza non tratta affatto, talchè la questione è inammissibile per la sua novità (oltre che irrilevante, essendo intervenuto il riconoscimento di paternità da parte dell'odierno ricorrente, la cui impugnazione è appunto oggetto della contesa), va rilevato, in relazione alla prima di esse, che, in base alla nuova formulazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo quando, come nella specie, il fatto storico rilevante in causa (relazione della madre con terzi nel periodo del concepimento) sia stato preso in considerazione dal giudice (Cass. SU n. 8053 del 2014), senza dire che la doglianza sarebbe stata inammissibile, pure, in riferimento al precedente testo della norma processuale, in quanto i capitoli di prova, trascritti in seno al ricorso, sono, per un verso, articolati in modo del tutto generico (in relazione al tipo di rapporti ed alle persone coinvolte) e, per altro verso, non sono affatto decisivi (i tempi di frequentazione della casa della madre da parte del ricorrente sono del tutto irrilevanti in relazione al thema probandum).
11. In relazione alla seconda sub-censura, va rilevato che la parte della deposizione, in tesi, erroneamente non valutata - e cioè la circostanza che la figlia di poco più di un anno sarebbe stata affidata al B. - è volta a suggerire un preteso consolidamento di pregressi contatti, ed, in via inferenziale, la paternità dello stesso, il che integra una mera ipotesi di ricostruzione dei fatti, che attiene al merito e sfugge al sindacato di legittimità, e parimenti incensurabile in questa sede è il mancato esercizio della facoltà discrezionale di ammissione della testimonianza de relato (nella specie relativa a frequentazione della madre col B. riferita al 1984, epoca successiva al concepimento) in quanto presuppone, anch'essa, un apprezzamento delle prove già acquisite.
12. Quanto alla terza sub-censura, basta osservare che ciò che il ricorrente contesta non è l'elenco dei fatti ritenuti incontroversi dal giudice territoriale (riassunti in narrativa), ma l'apprezzamento degli essi, valutazione che, tuttavia, è rimessa, com'è nozione ricevuta, al giudice di merito, cui spetta, nell'esercizio del potere discrezionale istituzionalmente demandatogli, individuare le fonti di prova, controllarne l'attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell'eccezione, e, quindi, valutare l'opportunità di fare o meno ricorso alle presunzioni, con apprezzamento di fatto che, giova ribadire, è estraneo al sindacato di legittimità.
13. Resta da aggiungere che la dedotta violazione della legge processuale, contenuta nell'intitolazione del motivo, che richiama l'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 non risulta ulteriormente sviluppata.
14. In relazione al secondo motivo, va rilevato che, in materia di accertamenti relativi alla paternità e alla maternità, la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 3563 del 2006; n. 14462 del 2008; n. 23290 del 2015; n. 18626 del 2017) ha, più volte, affermato che la consulenza tecnica immunoematologica costituisce lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l'acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione naturale e che, data la particolare valenza di tale accertamento, il rifiuto di sottoporvisi integra una scelta non coercibile ma suscettibile di esser valutata, ai sensi dell'art. 116 c.p.c. in modo tendenzialmente coerente con il grado di efficacia probatoria dell'esame, semprecchè, tuttavia, il rifiuto stesso risulti aprioristico ed ingiustificato.
14. Nella specie, la Corte territoriale, conformemente, peraltro, alla valutazione compiuta dal primo giudice, ha ritenuto, con motivazione congrua e niente affatto contraddittoria, che il rifiuto dalla controricorrente a sottoporsi agli esami ematologici risulta giustificato, in quanto si iscrive in un contesto di elevata conflittualità col padre, contrassegnato da diverse iniziative giudiziarie, prima volte a far valere le prerogative della genitorialità, e poi, constatatone il sostanziale fallimento, a negarla, e reifica il rifiuto della figlia "di avere una relazione con il genitore naturale e di non sottostare alla prova da lui richiesta". Ad ogni modo, la Corte ha escluso la portata decisiva di tale contegno, in considerazione dell'incontroverso legame nel periodo del concepimento tra il ricorrente e la madre (tanto da metterle a disposizione una casa) e dall'assenza di prova relativa a diversa relazione affettiva.
15. Sotto altro profilo, va rilevato che la valutazione del comportamento processuale (tale natura riveste in sè il rifiuto di sottoporsi agli esami ematologici) o extraprocessuale delle parti rientra nell'ambito del principio del libero convincimento di cui all'art. 116 c.p.c. ed opera sul piano dell'apprezzamento di merito, che, appunto, il ricorrente critica laddove ritiene che la "verità più plausibile, più logica, più spiegabile e forse più razionale" del motivo del rifiuto opposto dalla figlia sia da individuare nella consapevolezza da parte della stessa dell'insussistenza del rapporto biologico di filiazione, e tanto rende evidente che, tramite la violazione dell'art. 116 c.p.c., la denuncia riguarda, invece, un supposto errore di fatto, che può esser fatto valere solo attraverso il paradigma del vizio motivazionale, e, dunque, nei limiti consentiti dall'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 che circoscrive il sindacato di legittimità sulla motivazione alla sola verifica della violazione del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111 Cost., comma 6, (cfr. Cass. n. 23940 del 2017 e giurisprudenza ivi richiamata), e, nella specie, tale vizio, come si è detto, è insussistente.
17. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che si liquidano in complessivi Euro 8.200,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre accessori. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a, titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dell'art. 13, comma 1 bis. Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.
Così deciso in Roma, il 30 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 10 luglio 2018.


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