Il concordato preventivo con cessione parziale dei beni non ha effetto esdebitatorio
Pubblicato il 22/10/18 00:00 [Doc.5341]
di Redazione IL CASO.it


Massime a cura di Franco Benassi

Concordato preventivo - Cessione dei beni - Cessione parziale - Effetto esdebitatorio - Esclusione

Il concordato con cessione solo parziale dei beni realizza una violazione dell'art. 2740 cod. civ., in quanto l'effetto esdebitatorio presuppone la messa a disposizione dei creditori di tutte le attività del debitore e proprio la presenza di tale effetto spiega l'inapplicabilità della disciplina dettata dall'art. 1977 cod. civ. (la quale consente al debitore di cedere "tutte o alcune sue attività").

La cessione dei beni di fonte contrattuale non ha un effetto esdebitatorio (a differenza di quanto avviene nel concordato) e, come tale, consente ai creditori cessionari di agire esecutivamente anche sulle attività non cedute.


Concordato preventivo - Concordato con continuità aziendale - Cessione parziale dei beni - Ammissibilità - Finalità dell'istituto

Nel concordato con continuità aziendale, ai sensi dell'art. 186-bis L. Fall., la cessione parziale dei beni è espressamente prevista in relazione alla peculiare finalità perseguita dall'istituto, che è quella di consentire la prosecuzione dell'attività di impresa.


Concordato preventivo - Concordato di gruppo - Inammissibilità - Confusione delle masse attive e passive delle singole società - Esclusione

E' inammissibile la proposta unitaria di concordato da parte di società fra loro collegate da vincolo di direzione e controllo che preveda l'attribuzione ai creditori di ciascuna società solo di parte del patrimonio di questa (Cass. 13 ottobre 2015, n. 20559; Cass. 13 luglio 2018, n. 18761); il concordato preventivo può, pertanto, essere proposto unicamente da ciascuna delle società appartenenti al gruppo davanti al tribunale territorialmente competente per ogni singola procedura, senza possibilità di confusione delle masse attive e passive, per essere, quindi, approvato da maggioranze calcolate con riferimento alle posizioni debitorie di ogni singola impresa, con l'ulteriore precisazione che la separazione delle masse attive e passive rappresenta (anche in ragione del meccanismo di formazione delle maggioranze necessarie) un dato imprescindibile della normativa.



Cass. civ., sez. I, 17 ottobre 2018, n. 26005.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. IOFRIDA Giulia - Presidente -
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro - Consigliere -
Dott. NAZZICONE Loredana - Consigliere -
Dott. DE MARZO Giuseppe - rel. Consigliere -
Dott. VELLA Paola - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Svolgimento del processo
1. Con sentenza depositata il 19 marzo 2013 la Corte d'appello di Roma ha rigettato i reclami proposti da (*) s.r.l. in liquidazione, l'(*) s.r.l. in liquidazione, l'(*) s.r.l. in liquidazione, la (*) s.r.l. in liquidazione, la (*) s.r.l. in liquidazione, la (*) s.r.l. in liquidazione, la (*) s.r.l. in liquidazione, la (*) s.r.l. in liquidazione, la (*) soc. coop. a r.l. in liquidazione, la (*) soc. cons. a r.l. in liquidazione, la (*) s.r.l. in liquidazione,con i quali era stata chiesta la revoca delle sentenze di fallimento emesse in relazione a tali società.
2. Per quanto ancora rileva, la Corte territoriale ha osservato: a) che, nel caso di specie, il Tribunale aveva comunicato al P.M. la proposta di concordato depositata dalle società reclamanti, in osservanza dell'art. 161, L. Fall., che consente al P.M. di partecipare al procedimento e di formulare le sue conclusioni, tra le quali è ben possibile l'istanza di fallimento, che si inquadra nello speciale potere di azione attribuito dalla legge fallimentare alla parte pubblica; b) che, in definitiva, l'obbligo di comunicare al P.M. la proposta di concordato consente a quest'ultimo di acquisire l'eventuale notitia decoctionis, da ritenersi qualificata in quanto proveniente dallo stesso debitore che denuncia una situazione fattuale potenzialmente riconducibile ai presupposti del fallimento; c) che la stessa distinzione operata dall'art. 6 L. Fall. tra ricorso per la declaratoria di fallimento, da parte del debitore o dei creditori, e richiesta del P.M., finisce per svincolare l'iniziativa della parte pubblica da particolari requisiti di forma, soprattutto quando assunta nel corso della procedura di concordato; d) che, del resto, nessuna lesione del diritto di difesa era stata dedotta dalle società reclamanti; e) che, infine, la natura confessoria della insolvenza contenuta nella proposta concordataria spiegava la semplice presa d'atto da parte del P.M..
Nel merito, la Corte territoriale ha confermato la valutazione di inammissibilità della proposta concordataria con funzione liquidatoria presentata dalle varie società, la quale, nel prevedere che il ricavato della cessione dei beni della (*) e della (*), una volta soddisfatti per intero i creditori privilegiati e nella percentuale prevista (rispettivamente il 19 e il 20%) i creditori chirografari, fosse destinato al soddisfacimento dei creditori delle altre società del gruppo, finiva, nella sostanza, per realizzare la violazione del principio inderogabile della responsabilità patrimoniale del debitore, ai sensi dell'art. 2740 cod. civ..
La sentenza impugnata, infine, ha osservato che siffatti rilievi consentivano di considerare come assorbita la doglianza relativa alla inammissibilità della proposta per mancanza di una valida attestazione di fattibilità, aggiungendo, per completezza: a) che l'attestatore non aveva fatto proprie le conclusioni e le analisi del perito e, anzi, aveva formulato delle riserve sui valori indicati nelle relazioni di stima; b) che un giudizio di fattibilità subordinato al mancato verificarsi di una serie di circostanze negative sostanzialmente si traduce nell'assenza di una prognosi favorevole sul non avveramento di tali fattori condizionanti, soprattutto quando questi ultimi siano più d'uno.
3. Avverso tale sentenza la (*) s.r.l. in liquidazione, l'(*) s.r.l. in liquidazione, l'(*) s.r.l. in liquidazione, la (*) s.r.l. in liquidazione, la (*) s.r.l. in liquidazione, la (*) s.r.l. in liquidazione, la (*) s.r.l. in liquidazione, la (*) s.r.l. in liquidazione, la (*) soc. coop. a r.l. in liquidazione, la (*) soc. cons. a r.l. in liquidazione, la (*) s.r.l. in liquidazione hanno proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi cui resistono con controricorso le curatele dei fallimenti della (*) s.r.l. in liquidazione, della (*) s.r.l. in liquidazione, della (*) s.r.l. in liquidazione, della (*) s.c.a.r.l. in liquidazione, della (*) s.r.l. in liquidazione, della (*) s.r.l. in liquidazione, della (*) società consortile a r.l. in liquidazione, della (*) s.r.l. in liquidazione. Le curatele delle restanti società non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 6, 7 e 162 L. Fall. nonchè dell'art. 101 c.p.c., rilevando: a) che le ricorrenti, nel proporre reclamo, non avevano inteso dolersi del mero fatto che la richiesta di fallimento fosse stata proposta verbalmente dal P.M., ma dell'assenza di qualsiasi rilievo in merito allo stato di insolvenza; b) che tale vizio aveva reso la richiesta inidonea al raggiungimento del fine e quindi si era tradotta in un illegittimo esercizio del potere di azione, che aveva anche menomato il concreto esercizio del diritto al contraddittorio c) che, in senso contrario, non potevano essere valorizzati elementi fattuali acquisiti in epoca successiva; d) che, del resto, l'atto depositato dal P.M. presso la Procura Generale, a seguito della proposizione del reclamo, aveva ritenuto "pienamente esaustive le ragioni di non convenienza economica per i creditori del proposto concordato", aggiungendo che la motivazione della richiesta di fallimento doveva appunto essere colta "nel giudizio di non fattibilità e non convenienza del concordato"; e) che, alla stregua di tale precisazione, appariva evidente che l'accertamento dello stato di insolvenza e la dichiarazione di fallimento dovevano essere ricondotte ad un accertamento officioso da parte del Tribunale.
La doglianza è infondata, in quanto, come già rilevato da questa Corte (Cass. 13 aprile 2017, n. 9574) alla richiesta di fallimento formulata dal pubblico ministero ai sensi dell'art. 162, comma 2, quale conseguenza della inammissibilità della proposta di concordato preventivo, non si applica il disposto dell'art. 7 della medesima legge. In realtà, accanto al petitum, chiaramente evincibile dalle conclusioni formulate a verbale, è esattamente individuabile anche il requisito della causa petendi, giacchè lo stato di insolvenza è quello desumibile dalla complessiva situazione fattuale e procedimentale, alla luce della stessa proposta concordataria. La cit. Cass. 9574 del 2017, al pari della successiva Cass. 16 marzo 2018, n. 6649 chiarisce, infatti, che il P.M., informato della proposta di concordato preventivo (art. 161, comma 5, L. Fall.), partecipa ordinariamente al procedimento, nel rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa delle altre parti, mediante la presenza in udienza, ivi compresa quella fissata dal tribunale ai fini della declaratoria di inammissibilità della domanda, rassegnando le proprie conclusioni orali, che comprendono, oltre alla valutazione negativa sulla proposta concordataria, anche l'eventuale richiesta di fallimento in ragione della ritenuta insolvenza dell'imprenditore, di cui è venuto a conoscenza a seguito della partecipazione alla procedura, senza che vi sia la necessità che tali conclusioni si traducano in un formale ricorso da notificare al debitore in vista di un'udienza ex art. 15 L. Fall., affatto necessaria:
I cenni del provvedimento impugnato alla incontestata insolvenza della società non mirano a ricostruire, sulla base di una situazione fattuale emersa successivamente, il contenuto della richiesta, ma solo a sottolineare che proprio tale realtà, palesata dalla proposta, aveva rappresentato il fondamento dell'iniziativa processuale del pubblico ministero.
E' appena il caso di osservare che, in tale contesto, le valutazioni espresse dalla Procura generale, a seguito della proposizione del reclamo, non hanno alcun rilievo, al fine di risolvere la questione processuale sollevata che richiede l'applicazione delle norme pertinenti, senza essere condizionata dalle deduzioni e dai convincimenti delle parti.
In tale prospettiva, neppure è dato cogliere quale pregiudizio abbiano sofferto le possibilità difensive delle ricorrenti, una volta che le stesse erano, secondo il ragionevole apprezzamento espresso dalla Corte territoriale, ben consapevoli della situazione di insolvenza nella quale versavano e delle prevedibili conseguenze che sarebbero scaturite da una valutazione di inammissibilità del concordato.
2. Con il secondo motivo si lamenta violazione o falsa applicazione dell'art. 2740 cod. civ., nonchè degli artt. 160 e 182 L. Fall., rilevando: a) che l'art. 2740 cit. protegge l'interesse disponibile del creditore a non subire comportamenti del debitore che limitino la consistenza del patrimonio di quest'ultimo a danno del primo; b) che tale principio trova piena attuazione proprio nel concordato preventivo con cessione dei beni, che, per sua natura, si accompagna al rischio che i creditori chirografari non ricevano integralmente la percentuale del pagamento offerta nella proposta di concordato, che pure essi accettano, rinunciando alla illimitata responsabilità patrimoniale del debitore, in cambio della rassicurazione che parte del loro credito verrà soddisfatta; c) che tali indicazioni si inquadrano nella privatizzazione della procedura di concordato, nella soppressione dell'inciso dell'art. 160 L. Fall., che faceva riferimento alla "cessione di tutti i beni" e, infine, nella modifica della rubrica dell'art. 182 L. Fall., oggi formulata come "cessione di beni" e non più come "cessione dei beni"; d) che, pertanto, l'art. 186-bis L. Fall., lungi dal costituire eccezione alla regola, appare espressione dei ricordati principi; e) che, in definitiva, la Corte territoriale aveva ritenuto inammissibile la proposta per ragioni attinenti alla convenienza della stessa, rimesse alla esclusiva valutazione dei creditori; f) che la posizione dei creditori dissenzienti era destinata ad essere tutelata con il rimedio della opposizione all'omologa del concordato e con gli altri istituti destinati a trovare applicazione in relazione agli sviluppi della procedura (come la procedura finalizzata alla revoca dell'ammissione al concordato preventivo); g) che, peraltro, nel caso di specie, la cessione dei beni in favore dei creditori di (*) e di (*) era riconducibile ad una sorta di cessio pro solvendo.
Le doglianze sono infondate.
La tesi delle ricorrenti valorizza la natura negoziale del concordato e la disponibilità degli interessi in gioco, nel senso che spetta al debitore la facoltà di fissarne il contenuto e attribuisce ai creditori il diritto di valutarne la convenienza economica. E qualora vengano in rilievo, come nella specie, gruppi di società, dovrebbe appunto essere rimessa a siffatta valutazione l'approvazione della proposta di destinare parte dell'attivo di una delle società in concordato ai creditori di altra società del gruppo, ancorchè non sia prevista l'integrale soddisfazione dei creditori della prima.
Ritiene il Collegio che il concordato con cessione solo parziale dei beni realizzi una violazione dell'art. 2740 cod. civ., in quanto l'effetto esdebitatorio presuppone la messa a disposizione dei creditori di tutte le attività del debitore. Proprio la presenza di tale effetto spiega l'inapplicabilità della disciplina dettata dall'art. 1977 cod. civ., che consente al debitore di cedere "tutte o alcune sue attività"; in realtà, la cessione dei beni di fonte contrattuale non ha un effetto esdebitatorio, a differenza di quanto avviene nel concordato, e consente ai creditori cessionari di agire esecutivamente anche sulle attività non cedute. Così come diversa è la situazione che si presenta nel concordato con continuità aziendale, ai sensi dell'art. 186 bis L. Fall., in cui la cessione parziale dei beni è espressamente prevista proprio in relazione alla finalità perseguita dall'istituto di consentire la prosecuzione dell'attività imprenditoriale.
In senso contrario, non è convincente l'argomento tratto dal testo del novellato art. 160 L. Fall. - che non opera più un esclusivo e puntuale riferimento alla cessione di "tutti" i beni -, giacchè la formulazione del dato normativo in termini generali si spiega in quanto la cessione è divenuta una delle forme attraverso le quali si possono attuare la prevista ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti.
Posto allora che la cessione deve continuare ad investire nel concordato liquidatorio la totalità dei beni del debitore, deve poi osservarsi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, è inammissibile la proposta unitaria di concordato da parte di società fra loro collegate da vincolo di direzione e controllo che preveda l'attribuzione ai creditori di ciascuna società solo di parte del patrimonio di questa (Cass. 13 ottobre 2015, n. 20559; Cass. 13 luglio 2018, n. 18761). Il concordato preventivo può, pertanto, essere proposto unicamente da ciascuna delle società appartenenti al gruppo davanti al tribunale territorialmente competente per ogni singola procedura, senza possibilità di confusione delle masse attive e passive, per essere, quindi, approvato da maggioranze calcolate con riferimento alle posizioni debitorie di ogni singola impresa.
La necessaria separazione delle masse attive e passive rappresenta, pertanto, anche in ragione del meccanismo di formazione delle maggioranze necessarie, un dato imprescindibile della normativa. Del resto, essa caratterizza anche la sola ipotesi di concordato di gruppo, espressamente regolata dal D.L. 23 dicembre 2003, n. 347, art. 4 bis, comma 2, conv. con L. 18 febbraio 2004, n. 39. Siffatta scelta normativa è stata, peraltro, confermata anche dalla L. 19 ottobre 2017, n. 155, recante la delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza. La L. n. 155 del 2017, art. 3, comma 1, lett. d), infatti, nell'indicare al Governo i principi e i criteri direttivi per la riforma in tema di gruppi di impresa, ha previsto la facoltà di proporre con unico ricorso domanda di ammissione al concordato preventivo o di liquidazione giudiziale, lasciando ferma "in ogni caso l'autonomia delle rispettive masse attive e passive".
In questa prospettiva si apprezza la coerenza con il quadro normativo della soluzione assunta dalla Corte distrettuale, che ha colto nella violazione della regola dettata dall'art. 2740 cod. civ. il fondamento del giudizio di non fattibilità giuridica della proposta concordataria.
3. Con il terzo motivo si lamenta violazione o falsa applicazione degli artt. 161, 162 e 163 L. Fall., con riferimento alle considerazioni dedicate dalla sentenza impugnata alla questione della inammissibilità per mancanza di una valida attestazione di fattibilità del piano (questione pure ritenuta, in linea di principio, assorbita dal rigetto dei motivi di reclamo precedenti).
Rilevano le ricorrenti: a) che, secondo quanto chiarito da Cass., Sez. Un., 23 gennaio 2013, n. 1521, il controllo del giudice è limitato alla fattibilità giuridica del piano e non si estende ai profili della verosimiglianza dell'esito e della convenienza della proposta, invece rimessi alla valutazione dei creditori; b) che l'attestatore, nel caso di specie, aveva esaminato le perizie immobiliari e confermato la congruità dei valori espressi, alfine pervenendo alla attestazione di fattibilità del piano, pur doverosamente segnalando, nel quadro degli eventi futuri, alcune criticità finalizzate a fornire ai creditori i necessari elementi valutativi.
Il rigetto del secondo motivo comporta l'evidente assorbimento delle censure appena indicate.
4. In conclusione, il ricorso, complessivamente infondato, deve essere respinto e le ricorrenti condannate al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, oltre che dichiarate tenute al raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti, in solido tra loro, al pagamento, in favore delle controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 2 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2018.


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