Norme sulla trasparenza: incostituzionale la pubblicità generale senza selezione
Pubblicato il 26/02/19 08:07 [Doc.5980]
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Corte Costituzionale, sentenza 21 febbraio 2019 n. 20 (Pres. Lattanzi, rel. Zanon)

TRASPARENZA - PUBBLICITÀ - ART. 14, COMMA 1-BIS DLGS N. 33 DEL 2013 -OBBLIGO GENERALE DI PUBBLICAZIONE - PER TUTTI I TITOLARI DI INCARICHI DIRIGENZIALI - INCOSTITUZIONALITÀ
La Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 14, comma 1-bis, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all'art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall'organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall'art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche). Viola l'art. 3 Cost., innanzitutto sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca, imporre a tutti indiscriminatamente i titolari d'incarichi dirigenziali di pubblicare una dichiarazione contenente l'indicazione dei redditi soggetti all'IRPEF nonché dei diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, delle azioni di società, delle quote di partecipazione a società e dell'esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società (con obblighi estesi al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano e fatta salva la necessità di dare evidenza, in ogni caso, al mancato consenso). L'onere di pubblicazione in questione risulta, in primo luogo, sproporzionato rispetto alla finalità principale perseguita, quella di contrasto alla corruzione nell'ambito della pubblica amministrazione.


RAPPORTI CDFUE E CARTA COSTITUZIONALE - SINDACATO CORTE COST E SINDACATO CORTE GIUSTIZIA - SINDACATO CORTE COST CON EFFETTI ERGA OMNES - PRECISAZIONI
I principi e i diritti enunciati nella CDFUE intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri): la prima costituisce pertanto «parte del diritto dell'Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale». Fermi restando i principi del primato e dell'effetto diretto del diritto dell'Unione europea, occorre considerare la peculiarità delle situazioni nelle quali, in un ambito di rilevanza comunitaria, una legge che incide su diritti fondamentali della persona sia oggetto di dubbi, sia sotto il profilo della sua conformità alla Costituzione, sia sotto il profilo della sua compatibilità con la CDFUE (indirizzo enunciato già da Corte Cost., sentenza n. 269 del 2017). In tali casi - fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell'Unione europea, ai sensi dell'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), come modificato dall'art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130 - va preservata l'opportunità di un intervento con effetti erga omnes della Corte Costituzionale in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di legittimità costituzionale a fondamento dell'architettura costituzionale (art. 134 Cost.), precisandosi che in tali fattispecie, la Corte costituzionale giudicherà alla luce dei parametri costituzionali interni, ed eventualmente anche di quelli europei (ex artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), comunque secondo l'ordine che di volta in volta risulti maggiormente appropriato.


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SENTENZA N. 20

ANNO 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 14, commi 1-bis e 1-ter, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), promosso dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione prima quater, con ordinanza del 19 settembre 2017, iscritta al n. 167 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 2017.
Visti l'atto di costituzione di R. A. e altri, nonché l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 20 novembre 2018 il Giudice relatore Nicolò Zanon;
uditi gli avvocati Micaela Grandi e Stefano Orlandi per R. A. e altri e l'Avvocato dello Stato Gianna Galluzzo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 19 settembre 2017, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione prima quater, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 117, primo comma, della Costituzione - quest'ultimo in relazione agli artt. 7, 8 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, all'art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, all'art. 5 della Convenzione n. 108 sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale, adottata a Strasburgo il 28 gennaio 1981, ratificata e resa esecutiva con la legge 21 febbraio 1989, n. 98, nonché agli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), 7, lettere c) ed e), e 8, paragrafi 1 e 4, della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati - questioni di legittimità costituzionale dell'art. 14, commi 1-bis e 1-ter, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni).
Le indicate disposizioni - inserite dall'art. 13, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97 (Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge 6 novembre 2012, n. 190 e del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai sensi dell'articolo 7 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) - vengono censurate «nella parte in cui prevedono che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all'art. 14, comma 1, lettere c) ed f) dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali».
1.1.- Il TAR Lazio espone che i ricorrenti nel giudizio a quo - dirigenti di ruolo inseriti nell'organico dell'ufficio del Garante per la protezione dei dati personali - agiscono per l'annullamento: della nota del Segretario generale del Garante per la protezione dei dati personali n. 34260/96505 del 14 novembre 2016; delle note del medesimo organo, n. 37894/96505, n. 37897/96505, n. 37899/96505, n. 37892/96505, n. 37893/96505, n. 37898/96505, del 15 dicembre 2016, «previa eventuale disapplicazione dell'art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33», oppure previa rimessione alla Corte di giustizia dell'Unione europea o alla Corte costituzionale «della questione in ordine alla compatibilità delle disposizioni sopra citate con la normativa europea e costituzionale».
Il medesimo TAR rileva che la nota n. 34260/96505 del 14 novembre 2016 del Segretario generale del Garante per la protezione dei dati personali - in adempimento delle prescrizioni previste all'art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino nel proprio sito web alcuni dati relativi ai titolari di incarichi dirigenziali - ha invitato i ricorrenti a inviare entro un dato termine la relativa documentazione, e precisamente: copia dell'ultima dichiarazione dei redditi presentata, oscurando i dati eccedenti; dichiarazione, aggiornata alla data di sottoscrizione, per la pubblicità della situazione patrimoniale, da rendersi secondo uno schema allegato alla richiesta; dichiarazione di negato consenso per il coniuge non separato e i parenti entro il secondo grado, ovvero, in caso di avvenuta prestazione del consenso, copia delle dichiarazioni dei redditi dei suddetti soggetti e dichiarazioni aggiornate per la pubblicità delle rispettive situazioni patrimoniali; dichiarazione dei dati relativi ad eventuali altre cariche presso enti pubblici o privati o altri incarichi con oneri a carico della finanza pubblica assunte dagli interessati.
Ricorda poi che alla violazione dell'obbligo di comunicazione consegue, ai sensi dell'art. 47, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013, una sanzione amministrativa, parimenti soggetta a pubblicazione, a carico del singolo dirigente responsabile della mancata comunicazione.
1.2.- Il TAR Lazio ricostruisce, nel suo sviluppo storico, il quadro normativo pertinente agli obblighi di trasparenza gravanti sui dirigenti pubblici, fino allo stato attuale, risultante dalle modifiche apportate dal d.lgs. n. 97 del 2016.
Quest'ultimo ha equiparato gli obblighi di trasparenza gravanti sui dirigenti a quelli imposti ai titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo di livello statale, regionale e locale, attraverso l'introduzione del censurato comma 1-bis dell'art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, a norma del quale «[l]e pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui al comma 1 per i titolari di incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo comunque denominati, salvo che siano attribuiti a titolo gratuito, e per i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall'organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione».
Il comma 1 dell'art. 14 appena citato indica come oggetto dell'obbligo di comunicazione i seguenti dati: a) l'atto di nomina o di proclamazione, con l'indicazione della durata dell'incarico o del mandato elettivo; b) il curriculum; c) i compensi di qualsiasi natura connessi all'assunzione della carica e gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici; d) i dati relativi all'assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti; e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l'indicazione dei compensi spettanti; f) le dichiarazioni e le attestazioni di cui agli artt. 2, 3 e 4 della legge 5 luglio 1982, n. 441 (Disposizioni per la pubblicità della situazione patrimoniale di titolari di cariche elettive e di cariche direttive di alcuni enti) - relative alla dichiarazione dei redditi e alla dichiarazione dello stato patrimoniale, quest'ultima concernente il possesso di beni immobili o mobili registrati, azioni, obbligazioni o quote societarie -, limitatamente al soggetto interessato, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano, con la previsione che venga data evidenza al mancato consenso.
1.3.- In questo contesto, il rimettente rileva che, secondo i ricorrenti, il livello di trasparenza richiesto dalla normativa appena illustrata determinerebbe il trattamento giuridico dei dati indicati a carico di un notevolissimo numero di soggetti, approssimativamente stimati in circa centoquarantamila unità, senza contare né i coniugi né i parenti fino al secondo grado, in base a elaborazioni attribuite all'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN). Ricorda che essi sottolineano il carattere limitativo della riservatezza individuale di un trattamento che non troverebbe rispondenza in alcun altro ordinamento nazionale, ponendosi in contrasto con il «principio di proporzionalità di derivazione europea». Il trattamento in questione si fonderebbe «sull'erronea assimilazione di condizioni non equiparabili fra loro (dirigenti delle amministrazioni pubbliche e degli altri soggetti cui il decreto si applica e titolari di incarichi politici)», prescindendo «dall'effettivo rischio corruttivo insito nella funzione svolta».
1.4.- Riferisce il TAR Lazio che, con ordinanza n. 1030 del 2 marzo 2017, la domanda di sospensione interinale dell'esecuzione degli atti gravati, incidentalmente formulata in ricorso, è stata accolta.
1.5.- Il rimettente, in via preliminare, articola un'ampia motivazione per rigettare l'eccezione pregiudiziale di difetto di giurisdizione, avanzata, nel giudizio a quo, dal Garante per la protezione dei dati personali, sulla scorta dell'espressa previsione della devoluzione delle controversie al giudice ordinario prevista dall'art. 152 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella formulazione vigente al momento della proposizione del ricorso.
In particolare osserva che, nel giudizio in esame, si discute non dell'applicazione di norme del d.lgs. n. 196 del 2003 o di provvedimenti del Garante in materia di protezione dei dati personali o di loro mancata adozione, bensì di questioni e provvedimenti che afferiscono alle norme in materia di trasparenza, di cui al d.lgs. n. 33 del 2013, con conseguente applicabilità dell'art. 50 del testo legislativo da ultimo citato, a norma del quale «[l]e controversie relative agli obblighi di trasparenza previsti dalla normativa vigente sono disciplinate dal decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104». Ne deriverebbe la giurisdizione del giudice amministrativo, dal momento che l'art. 133, comma 1, lettera a), numero 6, dell'Allegato 1 (Codice del processo amministrativo) al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell'articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo) indica, tra le materie di giurisdizione esclusiva attribuite al giudice amministrativo, il «diritto di accesso ai documenti amministrativi e violazione degli obblighi di trasparenza amministrativa».
1.6.- Rigettate altre eccezioni preliminari, il rimettente enumera le fonti sovranazionali rilevanti nel caso di specie, soffermandosi, in particolare, sugli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE, ed evidenziando come i principi da essi espressi siano stati confermati nella nuova normativa in materia di protezione dei dati personali di cui al regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati), entrato in vigore il 24 maggio 2016, pur con efficacia differita al 25 maggio 2018.
Dalle illustrate disposizioni il rimettente ricava il principio secondo cui la tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, non osta a una normativa nazionale che imponga la raccolta e la divulgazione dei dati sui redditi dei dipendenti pubblici, a condizione, però, che sia provato che la divulgazione, laddove puntuale, ovvero riferita anche ai nominativi dei dipendenti, risulti necessaria e appropriata per l'obiettivo di buona gestione delle risorse pubbliche.
Secondo il TAR Lazio, infatti, i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza costituiscono il canone complessivo che governa il rapporto tra esigenza, privata, di protezione dei dati personali, ed esigenza, pubblica, di trasparenza.
1.7.- In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente evidenzia la necessità di adottare un sistema rigido di prevenzione della corruzione, la cui percezione è da intendersi anche come carenza di trasparenza, ma afferma che ciò dovrebbe avvenire sempre nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza delle misure adottate.
Afferma, in particolare, che «la denunzia di incompatibilità con la normativa europea e costituzionale formulata dai ricorrenti in relazione ai contestati dati oggetto di divulgazione risulta non manifestamente infondata», sotto i profili di seguito elencati.
1.8.- Quanto alla equiparazione dei dirigenti pubblici con i titolari di incarichi politici (originari destinatari della previsione di cui all'art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013) e all'assenza di qualsiasi differenziazione tra le figure dirigenziali, il rimettente osserva che la previsione normativa violerebbe l'art. 3 Cost. perché assimilerebbe condizioni che, «all'evidenza, non sono equiparabili fra loro», per «genesi, struttura, funzioni esercitate e poteri statali di riferimento».
A tale proposito evidenzia che i rapporti e le responsabilità che correlano le due figure ai cittadini si collocano su piani non comunicanti, ciò che renderebbe «del tutto implausibile la loro riconduzione, agli esclusivi fini della trasparenza, nell'ambito di un identico regime».
1.9.- La mancata differenziazione tra le categorie dirigenziali soggette alla misura, in base, ad esempio, all'amministrazione di appartenenza, alla qualifica, alle funzioni in concreto ricoperte, ai compensi percepiti, sarebbe parimenti «indice di una non adeguata calibrazione della disposizione in parola», tenuto conto della molteplicità delle categorie dirigenziali rinvenibili nell'ordinamento vigente e della connessa varietà ed estensione dei segmenti di potere amministrativo esercitato: la misura riguarderebbe, secondo le elaborazioni dell'ARAN, oltre centoquarantamila dirigenti, senza alcuna considerazione dell'effettivo rischio corruttivo insito nella funzione svolta.
1.10.- Altro sintomo di irragionevolezza della disciplina viene individuato nel fatto che la divulgazione on line di una quantità enorme di dati comporterebbe dei rischi di alterazione, manipolazione e riproduzione per fini diversi, che potrebbero frustrare le esigenze di informazione veritiera e, quindi, di controllo, alla base della normativa.
Le stesse modalità di diffusione dei dati reddituali e patrimoniali (relativi ai dirigenti, ai coniugi e ai parenti entro il secondo grado, ove essi acconsentano, e salva la menzione dell'eventuale mancato consenso), desunti dalla dichiarazione dei redditi, non supererebbero il test di proporzionalità condotto sulla misura in esame. Infatti, ai sensi degli artt. 7-bis e 9 del d.lgs. n. 33 del 2013, le amministrazioni cui compete la pubblicazione on line dei dati non possono disporre filtri e altre soluzioni tecniche atte ad impedire ai motori di ricerca web di indicizzarli o di renderli non consultabili. Tali modalità di pubblicazione renderebbero quest'ultima «indubbiamente foriera di usi da parte del pubblico che possono trasmodare […] dalla finalità della trasparenza, sino a giungere alla messa a rischio della sicurezza degli interessati».
Osserva a tale proposito il TAR Lazio che la «pubblicazione di massicce quantità di dati» non si traduce automaticamente nell'agevolazione della ricerca di quelli più significativi a determinati fini, soprattutto da parte dei singoli cittadini, i quali anzi non avrebbero a disposizione efficaci strumenti di lettura e di elaborazione di dati sovrabbondanti o eccessivamente diffusi. Il regime di trasparenza in funzione di contrasto alla corruzione dovrebbe invece essere finalizzato, a parere del rimettente, a tutelare l'intera collettività e non solo i soggetti «complessi» a vario titolo operanti nell'ordinamento vigente. Allo stato, solo questi ultimi sarebbero in possesso di strumenti idonei «a decrittare importanti masse di informazioni», e sarebbero perciò i soli in grado di trarre, dai dati oggetto degli obblighi informativi imposti dalle disposizioni censurate, «conclusioni coerenti con quanto complessivamente reso disponibile e con gli obiettivi propri della legislazione di cui trattasi». Ne deriverebbe la frustrazione dell'esigenza di consentire quella forma diffusa di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche, che pure costituisce la finalità perseguita dal d.lgs. n. 33 del 2013.
1.11.- Le disposizioni censurate, sotto i profili in precedenza segnalati, si porrebbero, dunque, in contrasto con diversi parametri costituzionali.
1.11.1.- In primo luogo sarebbe leso l'art. 117, primo comma, Cost., che vincola la potestà legislativa esercitata dallo Stato e dalle Regioni al rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, tra cui si collocano i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali.
1.11.2.- In secondo luogo sarebbe violato l'art. 3 Cost., per il contrasto con il «principio di uguaglianza formale e sostanziale», in conseguenza sia dell'irragionevole parità di trattamento che la disposizione riserva ai titolari di incarichi politici e ai titolari di incarichi dirigenziali, categorie ritenute non assimilabili in quanto soggette a regimi giuridici incomparabili, sia per l'irragionevole parificazione di tutti gli incarichi dirigenziali, effettuata senza distinguere, conformemente alla natura dell'interesse pubblico perseguito dalla norma, la portata degli obblighi di pubblicità on line in ragione delle caratteristiche delle loro tipologie, ovvero in riferimento al grado di esposizione dell'incarico pubblico al rischio di corruzione e all'entità delle risorse pubbliche assegnate all'ufficio della cui gestione il soggetto interessato deve rispondere.
1.11.3.- Sarebbero altresì violati gli artt. 2 e 13 Cost., che tutelano i diritti inviolabili dell'uomo e la libertà personale, stante la «suscettibilità della prescrizione imposta ai dirigenti di comunicare, ai fini della loro pubblicazione, i dati in contestazione, desunti dalla dichiarazione dei redditi, invece che una loro ragionata elaborazione, più funzionale alle finalità perseguite dalla trasparenza amministrativa e atta a scongiurare incontrovertibilmente la diffusione di dati sensibili o di dati, per un verso, superflui ai fini perseguiti dalla norma, per altro verso, suscettibili di interpretazioni distorte».
1.12.- Il TAR Lazio si mostra consapevole del fatto che la Corte di giustizia delle Comunità europee (sentenza 20 maggio 2003, nelle cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/01, Österreichischer Rundfunk e altri), ha ritenuto che gli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE - che hanno «trovato conferma» nelle disposizioni del regolamento n. 2016/679/UE - sono direttamente applicabili, nel senso che essi possono essere fatti valere da un singolo dinanzi ai giudici nazionali per evitare l'applicazione delle norme di diritto interno contrarie a tali disposizioni.
Esclude tuttavia che la norma contestata sia suscettibile di essere disapplicata «per contrasto con normative comunitarie», posto che non sarebbe individuabile una «disciplina self-executing di tale matrice direttamente applicabile alla fattispecie oggetto di giudizio».
Ritiene, infatti, che i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza di fonte europea invocati dai ricorrenti nel giudizio principale non sarebbero altro che «criteri in base ai quali effettuare una ponderazione della conformità» ad essi della disciplina censurata. Ma tale operazione necessariamente sconterebbe «i differenti caratteri e la diversa portata dell'interesse pubblico generale che si intende tutelare attraverso il regime di trasparenza, e che può avere una configurazione diversa, a seconda del sistema nazionale considerato».
Il TAR Lazio evidenzia, dunque, che le strade percorribili sarebbero due: un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea oppure la rimessione di una questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale.
Tra i due rimedi opta per la rimessione alla Corte costituzionale «della questione di costituzionalità relativa all'art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all'art. 14 comma 1, lett. c) ed f), dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali».
1.13.- In punto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, il rimettente ribadisce che gli atti impugnati nel giudizio principale costituiscono diretta applicazione della norma sospettata di contrasto con la Costituzione, sicché solo dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata potrebbe derivare il richiesto accoglimento del ricorso per illegittimità derivata degli atti impugnati.
1.14.- Il rimettente ritiene non manifestamente infondata anche la questione di legittimità costituzionale del comma 1-ter del medesimo art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, secondo cui «[c]iascun dirigente comunica all'amministrazione presso la quale presta servizio gli emolumenti complessivi percepiti a carico della finanza pubblica, anche in relazione a quanto previsto dall'articolo 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89. L'amministrazione pubblica sul proprio sito istituzionale l'ammontare complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun dirigente».
A suo parere, infatti, l'oggetto della pubblicazione prevista dall'ultimo periodo del predetto comma 1-ter costituirebbe un dato aggregato che contiene quello di cui al comma 1, lettera c), dello stesso articolo e potrebbe, anzi, corrispondere del tutto a quest'ultimo, laddove il dirigente non percepisca altro emolumento diverso dalla retribuzione per l'incarico assegnato.
Di qui la decisione «di estendere, d'ufficio, ai sensi dell'art. 23 della l. 11 marzo 1953, n. 87, recante norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale, la questione di legittimità costituzionale anche al comma 1-ter dell'art. 14 del d.lgs. 33/2013, limitatamente alla prescrizione di cui all'ultimo periodo», a norma del quale «[l]'amministrazione pubblica sul proprio sito istituzionale l'ammontare complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun dirigente».
In ordine alla motivazione in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza della ulteriore questione sollevata, il rimettente si limita a richiamare «integralmente le argomentazioni già esposte in ordine all'art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33».
2.- Si sono costituite le parti private R. A. e altri, le quali hanno ripercorso, nelle loro difese, la vicenda amministrativa e poi giudiziaria che ha condotto alla proposizione delle questioni di legittimità costituzionale.
2.1.- Preliminarmente, esse hanno contestato la negazione, da parte del TAR Lazio adito, del carattere self-executing del diritto europeo richiamato nel ricorso introduttivo del giudizio, in considerazione del fatto che tale carattere sarebbe stato, invece, espressamente riconosciuto, quantomeno agli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE, dalla citata sentenza del 20 maggio 2003 della Corte di giustizia.
A sostegno hanno richiamato altre decisioni della Corte di Lussemburgo in materia di protezione dei dati personali, dalle quali traggono la convinzione che spetti al giudice amministrativo adito pronunciarsi sulla compatibilità con il diritto europeo self-executing della norma censurata.
Hanno tuttavia riconosciuto, «[i]n alternativa», che, venendo in rilievo norme della CDFUE (artt. 7 e 8), «alla luce di quanto da ultimo deciso con sentenza n. 269/2017», spetti alla Corte costituzionale pronunciarsi anche sulla compatibilità della norma censurata con tali parametri.
2.2.- In ordine alla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate nell'ordinanza di rimessione, le parti private hanno sviluppato gli argomenti già illustrati dal TAR Lazio, concludendo per l'accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 14, commi 1-bis e 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013.
2.3.- In subordine, le parti private hanno chiesto alla Corte costituzionale di sollevare, ai sensi dell'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), come modificato dall'art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, questioni pregiudiziali vertenti sull'interpretazione della direttiva 95/46/CE.
2.4.- Tali parti hanno, infine, chiesto «l'anonimizzazione dei dati degli esponenti in sede di pubblicazione degli atti, ai sensi dell'art. 52 D. Lgs. 196/2003».
3.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.
3.1.- In relazione alla prospettata violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., secondo l'Avvocatura generale, «la stessa categoria del "trattamento dei dati personali" non pare ragionevolmente riferibile alla pubblicazione dei compensi di qualsiasi natura connessi all'assunzione della carica, degli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici», che è oggetto dell'obbligo imposto dall'art. 14, comma 1-bis, lettera c), del d.lgs. n. 33 del 2013.
Si tratterebbe, al contrario, di informazioni pubbliche, «in quanto concernenti l'uso di risorse pubbliche», sicché i «cittadini-contribuenti» avrebbero «diritto - ed interesse - a sapere come le risorse pubbliche sono gestite da parte delle pubbliche amministrazioni».
3.2.- In via generale l'Avvocatura osserva che il legislatore nazionale dispone di un margine di apprezzamento - attribuito agli Stati membri dallo stesso ordinamento europeo in materia di protezione dei dati personali - nel ponderare il proprio regime di trasparenza nel settore pubblico in rapporto alla tutela dei dati personali.
Ciò premesso, l'Avvocatura generale ritiene che il legislatore nazionale, nell'adozione delle norme di cui al d.lgs. n. 33 del 2013 oggetto di censura, abbia operato correttamente il dovuto bilanciamento «alla luce dei test di proporzionalità, non eccedenza, pertinenza, finalità e ragionevolezza».
3.3.- L'Avvocatura generale ricorda che la commissione incaricata dell'attuazione della delega contenuta nella legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione) ha messo in evidenza che l'adozione delle norme in materia di trasparenza nasce dall'esigenza di applicare un sistema rigido di prevenzione della corruzione, «in virtù dei numerosi moniti provenienti da rilevanti organizzazioni internazionali (Onu, Greco, OCSE) e dalla stessa Unione europea, che hanno raccomandato più volte all'Italia l'adozione di misure severe e drastiche, soprattutto ispirate a una logica di integrità e trasparenza».
L'Avvocatura generale richiama anche «le classifiche stilate dall'organizzazione "Transparency International" che hanno classificato l'Italia tra i Paesi in cui è più elevata la percezione della corruzione (da intendersi anche come carenza di trasparenza)».
In questo contesto, appunto, sarebbero stati calati i canoni di proporzionalità, pertinenza, non eccedenza e ragionevolezza, che il legislatore italiano avrebbe utilizzato nel bilanciamento tra l'interesse pubblico alla trasparenza e l'interesse individuale alla riservatezza, giungendo all'adozione di misure di trasparenza «ampie e rigorose».
3.4.- L'interveniente richiama gli studi dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) in tema di gestione del conflitto di interessi e di asset disclosure per i funzionari pubblici, evidenziando che il livello di divulgazione dei dati, in media, sarebbe strettamente correlato alla posizione dirigenziale. Di qui la conclusione che «i manager tendono ad avere più obblighi in materia di pubblicità rispetto ai funzionari».
3.5.- Con riferimento alla prospettata violazione dell'art. 3 Cost., l'Avvocatura generale osserva che «è proprio il fatto di essere permanentemente e stabilmente al servizio delle pubbliche amministrazioni, con funzioni gestionali apicali», a costituire la giustificazione del regime aperto, di massima trasparenza, per i gestori della cosa pubblica, «quanto se non più che per i titolari di incarichi politici».
Quanto all'assenza di gradualità degli obblighi di pubblicazione in relazione alla tipologia di incarico dirigenziale, l'Avvocatura generale suggerisce un'interpretazione costituzionalmente orientata - che porterebbe alla declaratoria d'infondatezza della questione posta sotto tale peculiare profilo - che sarebbe, del resto, già stata operata in sede esecutiva, attraverso apposite linee guida emanate dall'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), laddove si prevede, ai sensi dell'art. 3, comma 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013, che per i dirigenti di Comuni sotto i quindicimila abitanti si provveda alla pubblicazione dei dati di cui all'art. 14, comma 1, lettere da a) ad e), ma non di quelli previsti alla lettera f), vale a dire le attestazioni patrimoniali e la dichiarazione dei redditi, con estensione della medesima disciplina in favore dei dirigenti scolastici.
3.6.- Sarebbe parimenti infondata, a giudizio dell'interveniente, anche la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento agli artt. 2 e 13 Cost.
Il prospettato sacrificio della libertà personale a causa della pubblicazione dei dati (anziché di una loro «ragionata elaborazione») desumibili dalla dichiarazione dei redditi sarebbe scongiurato dal fatto che - in sede applicativa - sarebbe «comunque dovuto il necessario coordinamento delle disposizioni di cui all'art. 14 cit. con le vigenti norme di rango primario in materia di tutela dei dati personali».
Infine, con riferimento al nucleo familiare, «è la stessa legge a prevedere la pubblicazione dei dati solo su base volontaria», sicché sarebbe esclusa la violazione dei parametri costituzionali evocati.
3.7.- Inammissibile per difetto di rilevanza sarebbe, infine, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013, sollevata d'ufficio, in quanto il giudizio principale verterebbe su atti che non danno applicazione a tale comma, sicché la decisione del caso concreto prescinderebbe dalla norma in questione.
In ogni caso, militerebbero per l'infondatezza anche di tale ulteriore questione le argomentazioni addotte con riferimento alle censure mosse all'art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013.
4.- Le parti private, in prossimità dell'udienza pubblica del 20 novembre 2018, hanno depositato memoria illustrativa, nella quale hanno ripreso il contenuto dell'atto di costituzione e controdedotto rispetto agli argomenti illustrati dall'Avvocatura generale dello Stato.
In primo luogo esse hanno ribadito che il punto nodale della vicenda è costituito dai «rapporti tra le fonti dei diritti fondamentali», essendo violate insieme norme sia della CDFUE (artt. 7 e 8), sia della Costituzione, sia della CEDU, nell'ambito di una questione di legittimità costituzionale sollevata con l'evocazione, come parametri interposti, anche di altre norme di diritto dell'Unione - la direttiva 95/46/CE (le cui disposizioni sono poi state riprodotte nel regolamento n. 2016/679/UE) - che, al pari della CDFUE, pure avrebbero efficacia diretta.
Secondo le parti private, di fronte ai prospettati dubbi di compatibilità della disciplina italiana con tale complessiva cornice normativa dell'Unione europea, il TAR Lazio avrebbe dovuto, in base all'art. 267 del TFUE, disapplicare le norme nazionali oppure operare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo.
Ciò posto, le parti private hanno chiesto alla Corte costituzionale di valutare se dichiarare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale per l'immediata applicabilità del diritto europeo violato dalla normativa censurata, oppure adire con un rinvio pregiudiziale la Corte di giustizia, ovvero, ancora, ritenere «assorbente» la questione di legittimità costituzionale.
Con riferimento agli argomenti addotti dall'Avvocatura generale dello Stato, le parti private contrastano la tesi secondo cui i dati indicati dalla lettera c) dell'art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013 non sarebbero dati personali, quanto piuttosto informazioni concernenti l'uso di risorse pubbliche e, come tali, naturalmente pubbliche.
Le parti private, poi, contestano gli argomenti dell'interveniente fondati sul margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati nazionali nel dettare discipline in materia di trasparenza amministrativa. Esse affermano, infatti, che le norme della direttiva 95/46/CE, prima, e del regolamento n. 2016/679/UE, dopo, non lascerebbero agli Stati membri alcuna libertà di disciplinare, con margini di autonomia, i principi in esse indicati.
In ogni caso, anche il bilanciamento effettuato dal legislatore nazionale tra valori aventi tutti un rilievo costituzionale sarebbe viziato dalla prevalenza assoluta riconosciuta alla trasparenza amministrativa rispetto alla tutela della riservatezza delle persone. A sostegno di tale conclusione, le parti private riportano ampi stralci dell'atto di segnalazione n. 6 del 20 dicembre 2017 trasmesso dall'ANAC al Parlamento ed al Governo.
Le parti private, infine, controdeducono rispetto alla possibilità d'interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina censurata suggerita dall'interveniente e fondata sulla possibilità che l'ANAC intervenga, con proprie linee guida, ad introdurre una sorta di graduazione degli obblighi di pubblicazione, differenziando le categorie di dirigenti che sono ad essi soggette. Ritengono, infatti, che non spetti ad un'autorità amministrativa «"correggere il tiro" (e non di poco) di una disposizione legislativa (che si ritiene emendabile)», in quanto l'unica via percorribile a tal fine, ricorrendone i presupposti, sarebbe la disapplicazione della norma interna in contrasto con il diritto europeo o la pronuncia d'illegittimità costituzionale.

Considerato in diritto
1.- Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione prima quater, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 14, commi 1-bis e 1-ter, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni).
Le disposizioni censurate sono state inserite nell'art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013 dall'art. 13, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97 (Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge 6 novembre 2012, n. 190 e del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai sensi dell'articolo 7 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche).
In particolare, l'art. 14, comma 1-bis, estende a tutti i titolari di incarichi dirigenziali nella pubblica amministrazione, a qualsiasi titolo conferiti, gli obblighi di pubblicazione di una serie di dati, obblighi già previsti dal citato art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013 a carico dei titolari di incarichi politici, anche se non di carattere elettivo, di livello statale, regionale e locale.
Il rimettente censura la disposizione nella parte in cui stabilisce che le pubbliche amministrazioni pubblichino, per i dirigenti, i compensi di qualsiasi natura connessi all'assunzione della carica, gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici (art. 14, comma 1, lettera c); le dichiarazioni e attestazioni di cui agli artt. 2, 3 e 4 della legge 5 luglio 1982, n. 441 (Disposizioni per la pubblicità della situazione patrimoniale di titolari di cariche elettive e di cariche direttive di alcuni enti), ovvero la dichiarazione dei redditi soggetti all'imposta sui redditi delle persone fisiche e quella concernente i diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, le azioni di società, le quote di partecipazione a società, anche in relazione al coniuge non separato ed ai parenti entro il secondo grado, ove essi vi acconsentano, dovendosi in ogni caso dare evidenza al mancato consenso (art. 14, comma 1, lettera f).
L'art. 14, comma 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013 è censurato limitatamente all'ultimo periodo, nella parte in cui prevede che l'amministrazione pubblichi sul proprio sito istituzionale l'ammontare complessivo degli emolumenti percepiti da ciascun dirigente a carico della finanza pubblica.
1.1.- Ritiene il giudice a quo che le indicate disposizioni contrastino, innanzitutto, con l'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 7, 8 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, all'art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, all'art. 5 della Convenzione n. 108 sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale, adottata a Strasburgo il 28 gennaio 1981, ratificata e resa esecutiva con la legge 21 febbraio 1989, n. 98, nonché agli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), 7, lettere c) ed e), e 8, paragrafi 1 e 4, della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati.
Evidenzia il tribunale amministrativo rimettente come tali disposizioni stabiliscano principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, confermati anche dalla nuova normativa in materia di protezione dei dati personali di cui al regolamento (UE) n. 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati), definendo così il quadro sovranazionale di riferimento per ogni disciplina del rapporto tra esigenza (privata) di protezione di tali dati ed esigenza (pubblica) di trasparenza.
Sottolinea come la necessaria tutela delle persone fisiche rispetto al trattamento e alla libera circolazione dei dati personali non osterebbe a una normativa nazionale che imponga la raccolta e la divulgazione di informazioni relative al patrimonio e al reddito dei dirigenti pubblici, alla condizione, però, che la divulgazione di tali dati, in quanto riferiti puntualmente e specificamente ai nominativi dei dipendenti, risulti necessaria e appropriata al raggiungimento degli obiettivi della corretta informazione dei cittadini e della buona gestione delle risorse pubbliche.
Sostiene che i principi desumibili dai parametri europei risulterebbero invece lesi dalla disciplina censurata, anche a causa della quantità di dati da pubblicare e delle modalità della loro divulgazione, dovendosi in particolare considerare che, ai sensi degli artt. 7-bis e 9 del d.lgs. n. 33 del 2013, le amministrazioni cui compete la pubblicazione on line dei dati non possono disporre filtri e altre soluzioni tecniche atte a impedire ai motori di ricerca web di indicizzarli, o di renderli non consultabili attraverso questi ultimi.
1.2.- Le disposizioni di cui all'art. 14, commi 1-bis e 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013, sarebbero altresì in contrasto con l'art. 3 Cost., sotto due distinti profili.
In primo luogo, vi sarebbe violazione del principio di uguaglianza per la circostanza che gli obblighi di pubblicazione in esame graverebbero su tutti i dirigenti pubblici, senza alcuna distinzione. Il giudice a quo osserva che la previsione normativa assimilerebbe, in tal modo, cariche dirigenziali che, «all'evidenza, non sono equiparabili fra loro», per «genesi, struttura, funzioni esercitate e poteri statali di riferimento».
La mancata differenziazione tra le categorie dirigenziali soggette alla misura, in base, ad esempio, all'amministrazione di appartenenza, alla qualifica, alle funzioni in concreto ricoperte, ai compensi percepiti, sarebbe «indice di una non adeguata calibrazione della disposizione in parola», tenuto conto della molteplicità delle categorie dirigenziali rinvenibili nell'ordinamento vigente, e della connessa varietà ed estensione dei segmenti di potere amministrativo esercitato: la misura riguarderebbe, secondo le elaborazioni dell'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN), oltre centoquarantamila dirigenti, senza alcuna considerazione dell'effettivo rischio corruttivo insito nella funzione svolta, anche in relazione all'entità delle risorse pubbliche assegnate all'ufficio della cui gestione il soggetto interessato deve rispondere.
Violerebbe il principio di uguaglianza anche l'equiparazione, prevista dalle disposizioni censurate, dei dirigenti pubblici con i titolari di incarichi politici. Sottolinea il rimettente che la comune soggezione dei titolari di incarichi politici e dei dirigenti a identici obblighi di pubblicità, stante la diversa durata temporale che, di norma, caratterizza lo svolgimento delle relative funzioni, si risolverebbe in una misura particolarmente pervasiva per i secondi, assoggettati alla disciplina in esame per un periodo corrispondente all'intera durata del rapporto di lavoro, ponendosi nei loro confronti, diversamente che per i titolari di incarichi politici, alla stregua di una «condizione della vita».
La lesione dell'art. 3 Cost. emergerebbe anche sotto il profilo dell'intrinseca irragionevolezza della disciplina censurata. La divulgazione on line di una quantità enorme di dati comporterebbe rischi di alterazione, manipolazione e riproduzione di questi ultimi per finalità diverse da quelle per le quali la loro raccolta e trattamento sono previsti, con frustrazione delle esigenze di informazione veritiera e, quindi, di controllo, alla base della normativa.
Le stesse modalità di diffusione dei dati non supererebbero il test di ragionevolezza e proporzionalità, riguardando dati reddituali e patrimoniali - relativi non solo ai dirigenti, ma anche ai loro coniugi e parenti entro il secondo grado, ove acconsentano, e salva la menzione dell'eventuale mancato consenso - desunti dalla dichiarazione dei redditi e dunque particolarmente dettagliati, senza che, come già ricordato, le amministrazioni cui compete la pubblicazione on line dei dati possano disporre filtri e altre soluzioni tecniche atte a impedire ai motori di ricerca web di indicizzarli, o di renderli non consultabili attraverso questi.
Osserva a tale proposito il rimettente che la «pubblicazione di massicce quantità di dati» non si tradurrebbe automaticamente nell'agevolazione della ricerca di quelli più significativi a determinati fini, soprattutto da parte dei singoli cittadini, rispetto ai quali è anzi lecito supporre la mancanza di disponibilità di efficaci strumenti di lettura e di elaborazione di dati sovrabbondanti ed eccessivamente diffusi.
1.3.- Le disposizioni in esame si porrebbero altresì in contrasto con gli artt. 2 e 13 Cost., poiché i diritti inviolabili dell'uomo e la libertà personale risulterebbero lesi da obblighi di pubblicazione funzionali bensì a esigenze di trasparenza amministrativa, ma non idonei a scongiurare «la diffusione di dati sensibili», per un verso superflui ai fini perseguiti dalla disciplina, per altro verso «suscettibili di interpretazioni distorte».
1.4.- Infine, il TAR Lazio ritiene di «estendere, d'ufficio, ai sensi dell'art. 23 della l. 11 marzo 1953, n. 87» le descritte questioni di legittimità costituzionale anche all'art. 14, comma 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013, limitatamente all'ultimo periodo e, dunque, alla parte in cui prevede che l'amministrazione pubblichi sul proprio sito istituzionale l'ammontare complessivo degli emolumenti percepiti da ciascun dirigente a carico della finanza pubblica.
Sostiene, infatti, il rimettente che oggetto della pubblicazione prevista da tale ultimo periodo della disposizione sarebbe un dato aggregato, che contiene quello di cui al comma 1, lettera c), dello stesso art. 14, e potrebbe anzi corrispondere del tutto a quest'ultimo, se il dirigente non percepisca altro emolumento diverso dalla retribuzione per l'incarico conferitogli.
2.- Va preliminarmente considerato che il giudice rimettente è consapevole della circostanza per cui, trattando le norme censurate della pubblicazione in rete di dati reddituali e patrimoniali relativi a dirigenti delle pubbliche amministrazioni (e ai loro coniugi e parenti entro il secondo grado), viene in rilievo un trattamento di dati personali soggetto anche alla disciplina del diritto (comunitario, prima, e ora) dell'Unione europea.
Del resto, la stessa ordinanza di rimessione, lamentando che le disposizioni censurate violino l'art. 117, primo comma, Cost., indica, quali parametri interposti, norme del diritto europeo sia primario che derivato: argomenta, infatti, l'asserita lesione del diritto alla vita privata, di quello alla protezione dei dati personali, dei principi di proporzionalità e pertinenza, sanciti dagli articoli 7, 8 e 52 della CDFUE e dagli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE.
Al tempo stesso ritiene che la disciplina legislativa sia in contrasto anche con parametri costituzionali interni, sostenendo che essa lede l'art. 3 Cost., sotto diversi profili, e gli artt. 2 e 13 Cost.
Il giudice rimettente è altresì consapevole della circostanza che, in fattispecie analoga a quella al suo esame, la Corte di giustizia delle Comunità europee (sentenza 20 maggio 2003, nelle cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/0120, Österreichischer Rundfunk e altri) - pur avendo ritenuto, a seguito di rinvio pregiudiziale, che gli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c) ed e), della ricordata direttiva 95/46/CE contengono norme direttamente applicabili - ha stabilito che la valutazione sul corretto bilanciamento tra il diritto alla tutela dei dati personali e quello all'accesso ai dati in possesso delle pubbliche amministrazioni doveva essere rimessa al giudice del rinvio, escludendo perciò che fosse stata definitivamente compiuta dalla normativa europea.
Su questi presupposti, ritiene (punto 17 dell'ordinanza) che le disposizioni interne censurate non possano essere disapplicate «per contrasto con normative comunitarie», posto che non sarebbe realmente individuabile una disciplina self-executing di matrice europea applicabile alla fattispecie oggetto di giudizio.
Afferma, in particolare, che i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza in tema di trattamento dei dati personali - presidiati dalle norme europee, primarie e derivate, indicate quali parametri interposti - si presenterebbero non già quali disposizioni idonee a regolare la fattispecie al suo esame, bensì quali «criteri» di riferimento per effettuare una «ponderazione della conformità» della disciplina censurata, mostrando di intendere che tale operazione sia di segno diverso dalla semplice applicazione o non applicazione di una norma al fatto.
Escludendo dunque che la normativa europea offra una soluzione del caso concreto, scartando inoltre la via di un rinvio pregiudiziale, proprio perché in occasione analoga la Corte di giustizia aveva devoluto al giudice nazionale la valutazione sul corretto bilanciamento tra i due diritti potenzialmente confliggenti - quello alla tutela dei dati personali e quello ad accedere ai dati in possesso delle pubbliche amministrazioni - decide di sollevare questioni di legittimità costituzionale sulle disposizioni al suo esame, ritenendo che la valutazione sul bilanciamento in parola non possa che spettare a questa Corte.

2.1.- Alla luce della descritta prospettazione, le questioni di legittimità costituzionale sollevate, sotto lo specifico profilo appena esaminato, sono ammissibili.
Questa Corte (sentenza n. 269 del 2017) ha già rilevato che i principi e i diritti enunciati nella CDFUE intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri), e che la prima costituisce pertanto «parte del diritto dell'Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale». Ha aggiunto che, fermi restando i principi del primato e dell'effetto diretto del diritto dell'Unione europea, occorre considerare la peculiarità delle situazioni nelle quali, in un ambito di rilevanza comunitaria, una legge che incide su diritti fondamentali della persona sia oggetto di dubbi, sia sotto il profilo della sua conformità alla Costituzione, sia sotto il profilo della sua compatibilità con la CDFUE.
Ha concluso che in tali casi - fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell'Unione europea, ai sensi dell'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), come modificato dall'art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130 - va preservata l'opportunità di un intervento con effetti erga omnes di questa Corte, in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di legittimità costituzionale a fondamento dell'architettura costituzionale (art. 134 Cost.), precisando che, in tali fattispecie, la Corte costituzionale giudicherà alla luce dei parametri costituzionali interni, ed eventualmente anche di quelli europei (ex artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), comunque secondo l'ordine che di volta in volta risulti maggiormente appropriato.
Questo orientamento va confermato anche nel caso di specie, nel quale principi e diritti fondamentali enunciati dalla CDFUE intersecano, come meglio si chiarirà, principi e diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.
Peraltro, tra i parametri interposti rispetto alla denunciata violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., il giudice rimettente evoca, oltre a disposizioni della CDFUE, anche i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, previsti in particolare dagli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE.
Ciò non induce a modificare l'orientamento ricordato.
I principi previsti dalla direttiva si presentano, infatti, in singolare connessione con le pertinenti disposizioni della CDFUE: non solo nel senso che essi ne forniscono specificazione o attuazione, ma anche nel senso, addirittura inverso, che essi hanno costituito "modello" per quelle norme, e perciò partecipano all'evidenza della loro stessa natura, come espresso nelle Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, in cui si legge, in particolare nella «Spiegazione relativa all'art.8 - Protezione dei dati di carattere personale», che «[q]uesto articolo è stato fondato sull'articolo 286 del trattato che istituisce la Comunità europea, sulla direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali nonché alla libera circolazione di tali dati […], nonché sull'articolo 8 della CEDU e sulla convenzione del Consiglio d'Europa sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale del 28 gennaio 1981, ratificata da tutti gli Stati membri. […]. La direttiva e il regolamento [(CE) n. 45/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio] succitati definiscono le condizioni e i limiti applicabili all'esercizio del diritto alla protezione dei dati personali».

2.2.- L'ammissibilità, sempre sotto lo specifico profilo ora in esame, delle questioni sollevate, emerge anche alla luce della circostanza che la disciplina legislativa censurata, che estende a tutti i dirigenti delle pubbliche amministrazioni obblighi di pubblicazione di dati già in vigore per altri soggetti, opera, come si diceva, su un terreno nel quale risultano in connessione - e talvolta anche in visibile tensione - diritti e principi fondamentali, contemporaneamente tutelati sia dalla Costituzione che dal diritto europeo, primario e derivato.
Da una parte, il diritto alla riservatezza dei dati personali, quale manifestazione del diritto fondamentale all'intangibilità della sfera privata (sentenza n. 366 del 1991), che attiene alla tutela della vita degli individui nei suoi molteplici aspetti. Un diritto che trova riferimenti nella Costituzione italiana (artt. 2, 14, 15 Cost.), già riconosciuto, in relazione a molteplici ambiti di disciplina, nella giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 173 del 2009, n. 372 del 2006, n. 135 del 2002, n. 81 del 1993 e n. 366 del 1991), e che incontra specifica protezione nelle varie norme europee e convenzionali evocate dal giudice rimettente. Nell'epoca attuale, esso si caratterizza particolarmente quale diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e si giova, a sua protezione, dei canoni elaborati in sede europea per valutare la legittimità della raccolta, del trattamento e della diffusione dei dati personali. Si tratta dei già ricordati principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza, in virtù dei quali deroghe e limitazioni alla tutela della riservatezza di quei dati devono operare nei limiti dello stretto necessario, essendo indispensabile identificare le misure che incidano nella minor misura possibile sul diritto fondamentale, pur contribuendo al raggiungimento dei legittimi obiettivi sottesi alla raccolta e al trattamento dei dati.
Dall'altra parte, con eguale rilievo, i principi di pubblicità e trasparenza, riferiti non solo, quale corollario del principio democratico (art. 1 Cost.), a tutti gli aspetti rilevanti della vita pubblica e istituzionale, ma anche, ai sensi dell'art. 97 Cost., al buon funzionamento dell'amministrazione (sentenze n. 177 e n. 69 del 2018, n. 212 del 2017) e, per la parte che qui specificamente interessa, ai dati che essa possiede e controlla. Principi che, nella legislazione interna, tendono ormai a manifestarsi, nella loro declinazione soggettiva, nella forma di un diritto dei cittadini ad accedere ai dati in possesso della pubblica amministrazione, come del resto stabilisce l'art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013. Nel diritto europeo, la medesima ispirazione ha condotto il Trattato di Lisbona a inserire il diritto di accedere ai documenti in possesso delle autorità europee tra le «Disposizioni di applicazione generale» del Trattato sul funzionamento dell'Unione, imponendo di considerare il diritto di accesso ad essi quale principio generale del diritto europeo (art. 15, paragrafo 3, primo comma, TFUE e art. 42 CDFUE).
I diritti alla riservatezza e alla trasparenza si fronteggiano soprattutto nel nuovo scenario digitale: un ambito nel quale, da un lato, i diritti personali possono essere posti in pericolo dalla indiscriminata circolazione delle informazioni, e, dall'altro, proprio la più ampia circolazione dei dati può meglio consentire a ciascuno di informarsi e comunicare.
Non erra, pertanto, il giudice a quo quando segnala la peculiarità dell'esame cui deve essere soggetta la disciplina legislativa che egli si trova ad applicare, e quando sottolinea che tale esame va condotto dalla Corte costituzionale.
2.3.- La "prima parola" che questa Corte, per volontà esplicita del giudice a quo, si accinge a pronunciare sulla disciplina legislativa censurata è pertanto più che giustificata dal rango costituzionale della questione e dei diritti in gioco.
Resta fermo che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell'Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria.
In generale, la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della Costituzione italiana genera, del resto, un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione.
Questa Corte deve pertanto esprimere la propria valutazione, alla luce innanzitutto dei parametri costituzionali interni, su disposizioni che, come quelle ora in esame, pur soggette alla disciplina del diritto europeo, incidono su principi e diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione italiana e riconosciuti dalla stessa giurisprudenza costituzionale. Ciò anche allo scopo di contribuire, per la propria parte, a rendere effettiva la possibilità, di cui ragiona l'art. 6 del Trattato sull'Unione europea (TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993, che i corrispondenti diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo, e in particolare dalla CDFUE, siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, richiamate anche dall'art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti rilevanti.

3.- Passando, dunque, al merito delle questioni sollevate con riferimento all'art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013, il giudice rimettente prospetta il contrasto della disposizione anche con più parametri costituzionali interni.
Questa Corte, avendo la facoltà di decidere l'ordine delle censure da affrontare (sentenze n. 148 e n. 66 del 2018), ritiene di esaminare prioritariamente le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all'art. 3 Cost., evocato sia sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza, sia sotto il profilo della lesione del principio di uguaglianza.
Come si è ricordato, si è in presenza di una questione concernente il bilanciamento tra due diritti: quello alla riservatezza dei dati personali, inteso come diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e quello dei cittadini al libero accesso ai dati ed alle informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni.
In valutazioni di tale natura, il giudizio di ragionevolezza sulle scelte legislative si avvale del cosiddetto test di proporzionalità, che «richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi» (sentenza n. 1 del 2014, richiamata, da ultimo, dalle sentenze n. 137 del 2018, n. 10 del 2016, n. 272 e n. 23 del 2015 e n. 162 del 2014).
Nella specifica materia in oggetto, del resto, anche la giurisprudenza europea segue le medesime coordinate interpretative.
3.1.- La Corte di giustizia dell'Unione europea ha ripetutamente affermato che le esigenze di controllo democratico non possono travolgere il diritto fondamentale alla riservatezza delle persone fisiche, dovendo sempre essere rispettato il principio di proporzionalità, definito cardine della tutela dei dati personali: deroghe e limitazioni alla protezione dei dati personali devono perciò operare nei limiti dello stretto necessario, e prima di ricorrervi occorre ipotizzare misure che determinino la minor lesione, per le persone fisiche, del suddetto diritto fondamentale e che, nel contempo, contribuiscano in maniera efficace al raggiungimento dei confliggenti obiettivi di trasparenza, in quanto legittimamente perseguiti (sentenze 20 maggio 2003, nelle cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/01, Österreichischer Rundfunk e altri, e 9 novembre 2010, nelle cause riunite C-92/09 e 93/09, Volker und Markus Schecke e Eifert).
Nella pronuncia da ultimo richiamata, in particolare, si afferma che non può riconoscersi alcuna automatica prevalenza dell'obiettivo di trasparenza sul diritto alla protezione dei dati personali (punto 85).
La giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea ha influenzato lo stesso legislatore europeo, che ha avviato un ampio processo di revisione del quadro di regole in materia di protezione dei dati personali, concluso con l'emanazione di un unico corpus normativo di carattere generale, costituito dal regolamento n. 2016/679/UE, divenuto efficace successivamente ai fatti dai quali originano le questioni di legittimità costituzionale in esame, ma tenuto in debita considerazione dal gi


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