Concordato con scissione e violazione delle norme sulla responsabilità patrimoniale del debitore
Pubblicato il 22/06/20 08:05 [Doc.7755]
di Redazione IL CASO.it


La clausola della proposta di concordato preventivo che preveda un esonero dalla responsabilità patrimoniale del debitore è nulla per violazione di norme imperative e comporta la non fattibilità giuridica della proposta concordataria.

[Nel caso di specie, la proposta concordataria tendeva ad ottenere una sorta di "effetto purgativo" a favore del debitore, quale "alienante" di parti dell'azienda a mezzo scissione societaria, conservando alla scissa la gestione dell'impresa, nonché parte dei proventi ritraibili dal relativo esercizio, come pure la disponibilità dei beni non trasferiti alla scissionaria.]

Lo strumento dell'opposizione dei creditori alla scissione (ovvero pure alla fusione) si configura, nel sistema vigente, come rimedio aggiuntivo - non già preclusivo - degli altri e diversi rimedi che l'ordinamento viene a porre a tutela dei creditori dei soggetti partecipanti all'operazione.

Massime a cura di Franco Benassi

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Cassazione civile, sez. I, 12 giugno 2020, n. 11347. Pres. Didone, Rel. Dolmetta.
Fatto
1.- La s.p.a. Com., quale creditore della s.p.a. M. Edilizia, ha proposto reclamo L.Fall., ex art. 183, avverso il decreto del Tribunale di Arezzo di omologa del concordato preventivo di quest'ultima società.
In particolare, il reclamante ha rilevato la "non fattibilità giuridica della proposta che prevedeva, in forza della prospettata scissione della M. di altro soggetto (FX.), l'impegno della prima a versare alla procedura solo una parte dei proventi della continuità aziendale senza una percentuale minima di realizzazione ai creditori e che dopo l'omologa avrebbe continuato l'attività fuori dal controllo del tribunale beneficiando dell'esdebitazione, pur trasferendo alla scissionaria solo una parte dell'attivo, oltre che per la conservazione della partecipazione azionaria in capo ai soci della M. senza la previsione di alcun esborso a loro carico e a favore della procedura".
2. - Con decreto depositato in data 8 marzo 2016, la Corte di Appello di Firenze ha accolto il reclamo, revocando l'impugnato decreto di omologa.
3.- La Corte territoriale - dopo avere constatato che "il concordato preventivo proposto ha natura mista, contenendo sia la continuità aziendale (ad opera della stessa proponente), sia una liquidazione di asset mediante attribuzione di essi alla scissionaria FX." - ha osservato che "l'affermazione contenuta nella proposta, secondo cui dopo la scissione la M. (in capo alla quale era stabilita la continuità aziendale) sarebbe tornata in bonis e pertanto fuori, in quanto esdebitata e ristrutturata, dalla procedura concordataria... contrasta con la norma imperativa dell'art. 2506 quater c.c.".
Non vale in contrario il fatto che "il nuovo L.Fall., art. 182, richiamando la L.Fall., art. 105, consente la cessione di azienda o di ramo di azienda senza l'assunzione, da parte dell'acquirente, dei debiti anteriori dell'azienda ceduta": "in questo caso è la stessa società scissa - proponente il concordato preventivo - a restare nella gestione dell'azienda"; come pure nella disponibilità dei beni non trasferiti alla scissionaria.
Non può poi ritenersi corretta - ha proseguito il decreto - l'"interpretazione "correttiva" della proposta" adottata dal Tribunale, per cui la "non esdebitazione della M. risulta comunque disposta dalla legge, con la conseguenza della non violazione dell'art. 2740 c.c.": nel concreto, l'"esdebitazione è elemento della proposta concordataria e condiziona la continuità aziendale, con ciò contrastando con la fattibilità giuridica della proposta stessa".
4.- "Altrettanto deve dirsi" - ha inoltre sottolineato la Corte toscana - quanto "all'aspetto della proposta concordataria in cui la M. si è impegnata a versare in tre anni l'importo complessivo di Euro 225.000 come "parte dei proventi della continuità aziendale"".
La previsione "contrasta con la ratio stessa dell'istituto" del concordato in continuità, che risulta "finalizzato da un lato a consentire il superamento della crisi dell'imprenditore"; "dall'altro, al soddisfacimento dei creditori, come emerge dalla necessità dell'attestazione da parte del professionista incaricato che la prosecuzione dell'attività di impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori (rispetto alla liquidazione)".
5. - Avverso questo provvedimento ricorre la s.p.a. M. Edilizia, portando tre motivi di cassazione.
Resiste, con controricorso, la s.p.a. Com..
Non ha svolto difese la procedura di concordato preventivo.

Motivi della decisione
6. - I motivi di ricorso sono stati intestati nei termini qui di seguito riportati.
Primo motivo: "violazione e falsa applicazione della L.Fall., art. 183, in combinato disposto con l'art. 739 c.p.c., comma 2 e art. 742 bis, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.".
Secondo motivo: "violazione e falsa applicazione dell'art. 2506 quater c.c. e dell'art. 2740 c.c., nonchè della L.Fall., artt. 186 bis, 182 e 105, in relazione alla L. art. 360, n. 3 c.p.c."; "omesso esame o non considerazione di fatto decisivo per il giudizio in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5 con riferimento all'interpretazione correttiva del piano concordatario".
Terzo motivo: "omesso esame o non considerazione di fatto decisivo per il giudizio in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5 con riferimento agli effetti della non impugnazione della intervenuta scissione ai sensi dell'art. 329 c.p.c.".
7. - Il primo motivo riprende l'eccezione, svolta dal ricorrente nell'ambito del giudizio di reclamo, di inammissibilità per tardività di quello presentato dalla s.p.a. Com..
Si assume, in particolare, che il termine di impugnazione avverso il decreto di omologa è di dieci giorni, secondo quanto previsto in genere dall'art. 739 c.p.c., comma 2, in relazione ai procedimenti camerali.
L'applicazione del termine di trenta giorni, ritenuta dalla Corte di Appello sulla base di quanto previsto dalla L.Fall., art. 18, comma 14, per l'impugnazione della sentenza dichiarativa del fallimento, non può ritenersi corretta con riferimento al caso concreto: "in assenza di istanze di fallimento, come nella fattispecie, il Tribunale, anche ove avesse emesso un decreto di diniego dell'omologa, non avrebbe pronunciato una separata sentenza di fallimento". Perciò, "non sussiste alcuna ragione" - così si conclude - "per derogare alla regola generale propria dei procedimenti camerali".
8. - Il motivo non può essere accolto.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, è da ritenere che il termine per la proposizione del reclamo L.Fall., ex art. 183, sia in ogni caso di trenta giorni.
La norma della L.Fall., art. 183, comma 2, prescrive" - si osserva "che con lo stesso reclamo è altresì impugnabile la sentenza dichiarativa di fallimento, contestualmente emessa a noma della L.Fall., art. 180, comma 7". D'altra parte, una "lettura costituzionalmente orientata della disciplina" - e la conseguente necessità di uniformità di quest'ultima - escludono senz'altro l'eventualità di fissare un termine diverso, e più breve, per le ipotesi in cui contestualmente al provvedimento relativo all'omologazione non risulti pronunciata una separata sentenza di fallimento: tanto nel caso di reclamo avverso il provvedimento di omologa, quanto in quello di diniego della medesima (cfr. Cass., 9 febbraio 2017, n. 3463; Cass., 5 maggio 2018, n. 20892; Cass., 20 settembre 2013, n. 21606; Cass., 19 marzo 2012, n. 4304).
9.1.- Il secondo motivo contiene due distinte censure: la seconda gradata rispetto alla prima.
9.2.- Sostiene dunque il ricorrente in prima battuta che la Corte fiorentina ha errato nel ritenere non possibile l'"effetto liberatorio della società scissa che conseguirebbe, sulla base del piano della debitrice, dall'applicazione della L.Fall., artt. 182 e 105".
Una simile interpretazione non ha - avverte il ricorrente - "una logica di sussistenza, dovendosi comunque dare corso alla liberazione allorchè un'azienda venga trasferita nell'ambito di una procedura concordataria, avvenga ciò mediante cessione e quindi con deroga alla norma dell'art. 2560 c.c. e quindi in deroga alla norma dell'art. 2506 quater c.c.".
9.3. - La seconda censura assume che - quand'anche si ritenesse di non accedere alle precedenti considerazioni - in ogni caso l'impugnato decreto sarebbe da cassare: perchè ha omesso di considerare che la "pronuncia del Tribunale di Arezzo che, interpretando le norme nel senso voluto dalla Corte di Appello, aveva precisato quali sarebbero stati gli effetti della omologazione del concordato, e cioè che in ogni caso la società scissa non sarebbe stato liberata dalla esposizione debitoria, trovando comunque applicazione l'art. 2506 quater c.c.".
"In altri termini" - così puntualizza il ricorrente - "la esistenza o inesistenza della responsabilità solidale della scissa, destinataria dell'azienda in continuità, rispetto ai debiti concordatari, è esclusivamente un effetto della proposta che varia a seconda del tipo di interpretazione prescelta e ritenuta corretta".
10. - Il motivo non è fondato, in nessuna delle varianti che viene a proporre.
11. - In relazione alla prima delle censure svolte, si deve rilevare, in sintonia con quanto riscontrato dalla Corte toscana, che la proposta concordataria formulata dalla s.p.a. M. importa un'indubbia deroga al disposto dell'art. 2506 quater c.c., laddove questo stabilisce che tutte le società partecipanti all'operazione di scissione - dunque, tra le altre anche la società scissa - sono solidamente responsabili per i debiti preesistenti.
Ne consegue che la deroga di cui alla proposta di concordato viene a configurarsi, nella sua radice prima, come deroga al principio della responsabilità patrimoniale del debitore che è sancito dalla norma dell'art. 2740 c.c.
Come chiarisce il comma 2 di questa disposizione, tuttavia, le limitazioni della responsabilità - e a maggior ragione l'esclusione della stessa - "non sono ammesse se non nei casi previsti dalla legge". Cosa che, per il punto qui concretamente in esame (della responsabilità della scissa, cioè), non avviene.
12. - Non risulta in alcun modo conferente, al riguardo, il richiamo che il ricorrente ritiene di effettuare alla disposizione della L.Fall., art. 105, comma 4, nonchè a quella della L.Fall., art. 182, comma 5, che in maniera espressa viene a richiamare, per la materia del concordato, la norma scritta per la procedura fallimentare.
Basta rilevare, al riguardo, che la norma dell'art. 105, nel derogare alla regola generale dell'art. 2560 c.c., comma 2 (responsabilità dell'acquirente per i debiti attinenti all'azienda ceduta), è dettata nell'ambito della regolamentazione della fase dell'esecuzione concorsuale che consiste nella liquidazione dell'attivo; che, nel prevedere il c.d. effetto purgativo, la regola di cui all'art. 105, comma 4, risulta palesemente intesa a perseguire la funzione della migliore "monetizzazione" del complesso aziendale, in funzione di un più efficace soddisfacimento delle pretese della massa dei creditori ammessi; che, in questa prospettiva, la regola in esame non può essere letta che insieme a quella contenuta nella parte inziale dello stesso comma 4 (che consente alla possibilità di una " diversa convenzione") e a quella scritta nel comma 9 del medesimo articolo (per cui, se non viene alterata la graduazione dei crediti, "il pagamento del prezzo", di cui alla vendita aziendale, può anche "essere effettuato mediante accollo dei debiti").
Si tratta, in definitiva, di una previsione normativa radicalmente e in modo compiuto estranea alla situazione e alla proposta concordataria qui concretamente in esame.
Come non manca di sottolineare la pronuncia impugnata, nella specie la proposta concordataria intenderebbe produrre, in realtà, una sorta di "effetto purgativo" a favore del debitore, quale "alienante" di parti dell'azienda a mezzo scissione societaria: nel senso, appunto, che intende conservare alla scissa la gestione dell'impresa (nonchè parte sostantiva dei proventi ritraibili dal relativo esercizio: sopra, n. 4 primo capoverso), come pure la disponibilità dei beni non trasferiti alla scissionaria.
13. - La seconda delle censure formulate dal motivo (sopra, n. 9.3.) si scontra con la constatazione che il vizio di cui all'art. 360 c.p.c., è riferibile solamente al caso di omesso esame di un "fatto storico" (e decisivo per l'esito del giudizio).
Nella specie, per contro, il ricorrente assume - e, per la verità, in termini espliciti - che la Corte territoriale non ha preso in considerazione taluni degli effetti giuridici della proposta concordataria: o meglio, che non ha esaminato degli effetti che, secondo la linea tratteggiata dal ricorrente, si porrebbero come frutto di una delle possibili interpretazioni della proposta di concordato.
Nel caso in esame comunque - resta da aggiungere per completezza di esposizione - la clausola contenuta nella proposta di concordato è nulla perchè in violazione di norma imperativa, quale non consentita clausola di esonero dalla responsabilità patrimoniale (n. 11); e viene a determinare, secondo quanto precisato dalla Corte territoriale, la "non fattibilità giuridica" della proposta medesima.
Non vi è, dunque, nessuno spazio per potere predicare l'applicazione, a livello di fattispecie concreta, di un regime disciplinare, sostitutivo che risulti compatibile con i principi del sistema vigente (come per contro ritenuto, in sede di omologa, dal Tribunale di Arezzo, pur nell'assenza, nel tessuto contenutistico della presentata proposta, di una apposita clausola succedanea; cfr. sopra, n. 3 ult. cpv.).
14.- Il terzo motivo di ricorso assume che la Corte territoriale non ha tenuto conto del fatto che la s.p.a. Com., creditrice che ha sporto reclamo avverso il decreto di omologa, non aveva a suo tempo proposto opposizione ex art. 2505 c.c., comma 5, e art. 2503 c.c..
Si tratta - così prosegue il ricorrente - di un fatto decisivo per l'esito del giudizio: la mancata proposizione dell'opposizione alla scissione si pone, nel concreto della vicenda, come "elemento di acquiescenza rispetto al decreto di omologazione". E ciò in quanto - così si illustra - "il primo e più sostanziale argomento del "reclamo Com.", poi accolto dalla Corte di Appello, era proprio quello relativo agli effetti che sarebbero derivati dalla detta scissione con riferimento anche alla pretesa violazione dell'art. 2740 cui dava luogo la scissione".
15. - Il motivo non merita di essere accolto.
In proposito, va sul piano generale ricordato che la giurisprudenza di questa Corte ha accertato che lo strumento dell'opposizione dei creditori alla scissione (ovvero pure alla fusione) si configura, nel sistema vigente, come rimedio aggiuntivo - non già preclusivo - degli altri e diversi rimedi che l'ordinamento viene a porre a tutela dei creditori dei relativi soggetti (cfr. Cass., 4 dicembre 2019, n. 31654; Cass., 21 febbraio 2020, n. 4737; v. altresì Cass., 18 gennaio 2018, n. 1181).
Va aggiunto che, d'altra parte, il ricorrente non indica gli atti e i termini in cui avrebbe sollevato il punto della pretesa acquiescenza in sede di giudizio di reclamo. E neppure trascrive, o almeno indica, il testo della previsione che - nell'ambito dell'operazione di scissione societaria avrebbe comportato la deroga alla pur imperativa norma dell'art. 2506 quater c.c..
16. - In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono la regola della soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida nella somma di Euro 5.200.00 (di cui Euro 200,00 per esborsi), oltre a spese forfettarie nella misura del 15% e accessori di legge.
Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, secondo quanto stabilito dalla norma dell'art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione civile, il 22 gennaio 2020.
Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2020.


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