Presupposti di impugnazione del diniego di autotutela
Pubblicato il 30/11/23 00:00 [Doc.12666]
di Fisco Oggi - Agenzia delle Entrate


L'annullamento, la revoca o il ritiro del provvedimento di “rifiuto” devono rappresentare, per l’ufficio, una necessità originata dall'esigenza di evitare una lesione a un interesse di natura generale

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Il sindacato del giudice tributario, sul provvedimento di diniego dell'annullamento dell'atto tributario divenuto definitivo, è consentito solo nei limiti dell'accertamento della ricorrenza di ragioni di rilevante interesse generale dell'Amministrazione finanziaria alla rimozione dell'atto, originarie o sopravvenute. Deve, invece, escludersi che possa essere accolta l'impugnazione del provvedimento di diniego proposta dal contribuente, che contesti vizi dell'atto impositivo per tutelare un interesse proprio ed esclusivo.

La Corte di cassazione, con due recenti ordinanze, entrambe del 5 ottobre 2023, la n. 28134 e la n. 28105, è tornata a esprimersi sui presupposti di impugnazione del diniego di autotutela.
Nel primo caso esaminato dalla Corte (Cassazione, n. 28134/2023), la contribuente riceveva quattro atti impositivi, relativi al quadriennio 2005/2008, che non venivano impugnati, divenendo così definitivi.
A seguito della notificazione dell’atto di intimazione di pagamento, la contribuente presentava istanza di annullamento in autotutela, che veniva però rigettata dall’ufficio.
La stessa proponeva quindi ricorso, impugnando il diniego di autotutela.
 
La Commissione tributaria provinciale riteneva il ricorso inammissibile, in quanto promosso avverso un atto non autonomamente impugnabile se non per vizi propri, laddove la contribuente aveva invece inteso dedurne l’illegittimità sul presupposto, nel merito, dell’illegittima pretesa erariale. La decisione veniva poi confermata anche dalla Commissione tributaria regionale, la quale rilevava, altresì, l’assenza dell’interesse pubblico, concreto e attuale, all’annullamento dell’atto.

La contribuente proponeva, infine, ricorso per cassazione, deducendo la violazione dell’articolo 2 del Dm n. 37/1997, in combinato disposto con l’articolo 53 della Carta costituzionale, per l’asserita, erronea, affermazione della recessività del principio di capacità contributiva rispetto a quello di conservazione degli atti.
In sostanza, la ricorrente lamentava l’illegittimità della sentenza, nella parte in cui aveva affermato che la definitività di un atto impositivo ne inibisce l’annullamento in autotutela, anche quando questo implichi la violazione del principio di capacità contributiva.
Secondo la suprema Corte la censura era infondata.

I giudici di legittimità evidenziano che, sul punto, si è espressa anche la Corte costituzionale, la quale – oltre a confermare la giurisprudenza secondo cui, tenuto conto del carattere discrezionale dell'autoannullamento tributario, questo non costituisce un mezzo di tutela del contribuente – ha affermato che, anche in un contesto nel quale l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto acquista specifica valenza e tende, in una certa misura, a convergere con quello del contribuente, non va tuttavia trascurato il fatto che altri interessi possono e devono concorrere nella valutazione amministrativa, e fra essi certamente quello alla stabilità dei rapporti giuridici di diritto pubblico, inevitabilmente compromessa dall'annullamento di un atto inoppugnabile.
Tale interesse, rileva la Cassazione, richiede quindi di essere bilanciato con tutti gli altri interessi in gioco, secondo il meccanismo proprio della valutazione comparativa.

Nel processo tributario, pertanto, il sindacato sull'atto di diniego dell'Amministrazione di procedere ad annullamento del provvedimento impositivo in sede di autotutela può riguardare soltanto eventuali profili di illegittimità del rifiuto, in relazione a ragioni di rilevante interesse generale che giustifichino l'esercizio di tale potere, che, come affermato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 181/2017, si fonda su valutazioni ampiamente discrezionali e non costituisce uno strumento di tutela dei diritti individuali del contribuente (cfr Cassazione, n. 7318/2022).

Quanto al principio di capacità contributiva, sancito dall’articolo 53 della Costituzione, la Corte ricorda che le dette ragioni di rilevante interesse generale non ricorrono ove il contribuente deduca, in astratto, la violazione del diritto a una tassazione conforme al principio di capacità contributiva (cfr Cassazione, n. 8385/2023), attenendo le stesse censure a un pregiudizio e interesse individuale e non appunto alla tutela di un interesse generale.

Stesse conclusioni la Corte raggiunge anche in riferimento al secondo caso esaminato (cfr Cassazione, n. 28105/2023).
Anche in quell’occasione i ricorrenti denunciavano la violazione degli articoli 2-quater, Dl 30 n. 564/1994 e del Dm n. 37/1997, censurando la sentenza impugnata per non aver preso in esame l’errore sull’esistenza del presupposto impositivo e deducendo che il potere, seppur discrezionale, dell’Amministrazione finanziaria di annullare l’atto tributario doveva fondarsi su una valutazione precisa e puntuale di tutta la documentazione allegata all’istanza di autotutela, in applicazione dei principi di diritto sanciti dallo Statuto del contribuente e dall’articolo 97 della Costituzione.
Anche in questo caso, secondo la Cassazione, le censure erano infondate.

I giudici di legittimità evidenziano, tra le altre, che, con riguardo ai limiti del sindacato giurisdizionale (del giudice tributario) sugli atti di autotutela, le sezioni unite hanno circoscritto l'oggetto del giudizio alla sola valutazione della legittimità del rifiuto dell'annullamento d'ufficio, escludendo che esso possa estendersi alla fondatezza della pretesa tributaria, verificandosi altrimenti una indebita sostituzione dello stesso giudice nell'attività amministrativa.
In definitiva, l'esercizio del potere di autotutela non costituisce un mezzo di tutela per il contribuente, sostitutivo dei rimedi giurisdizionali che non sono stati esperiti, potendo riguardare, come visto, solo profili di illegittimità del rifiuto di annullamento opposto dall'Amministrazione, in relazione a ragioni di rilevante interesse generale (cfr Cassazione, n. 8211/2023).

Al fine di chiarire, poi, il contenuto della locuzione “interesse generale alla rimozione dell'atto”, la Cassazione rileva che, per giustificare la doglianza contro il diniego di autotutela, occorre che sia dedotto un interesse “travalicante quello individuale della parte in causa, concreto e specifico, in esatta corrispondenza all'interesse di cui l'amministrazione deve dar conto nella motivazione dell'atto di annullamento, adottato anche in assenza di sollecitazione del privato” (cfr Cassazione, n. 4937/2019).
E questo, in linea con quanto già chiarito anche dalla Corte costituzionale, la quale ha ribadito che l'annullamento d'ufficio non ha la funzione di tutela del contribuente, ma è espressione di amministrazione attiva.

Il giudice delle leggi ha poi spiegato che “affermare il dovere dell'amministrazione di rispondere all'istanza di autotutela significherebbe, in altri termini, creare una nuova situazione giuridicamente protetta del contribuente, per giunta azionabile sine die dall'interessato, il quale potrebbe riattivare in ogni momento il circuito giurisdizionale, superando il principio della definitività del provvedimento amministrativo e della correlata stabilità della regolazione del rapporto che ne costituisce oggetto” (cfr Corte costituzionale, sentenza n. 181/2017).

L'annullamento, la revoca o il ritiro del provvedimento di diniego devono, in sostanza, rappresentare per l’ufficio una necessità, originata dall'esigenza di evitare una lesione a un interesse di natura generale, superabile soltanto mediante la rimozione dell'atto, laddove, comunque, evidenzia la Cassazione, il “rilevante interesse generale che legittima l'autotutela non può consistere nella mera deduzione dell'erronea imposizione, trattandosi quest'ultimo di un profilo inerente in via esclusiva l'interesse privato” (cfr Cassazione,  nn. 8211/2023 e 13136/2022).

In conclusione e a prescindere dagli specifici casi processuali esaminati, giova evidenziare che proprio nel principio di buon andamento espresso dall’articolo 97 della Costituzione si radica il vincolo di tenere conto, nella disciplina dell’annullamento d’ufficio, anche dell’interesse pubblico alla stabilità dei rapporti giuridici già definiti (cfr Cassazione, n. 22445/2023).
Questo non vuol dire che (salvi i limiti espressamente posti dalla legge, come, per esempio, in caso di giudicato sul merito) l’Amministrazione non possa intervenire sul rapporto; ma tale intervento deve comunque ponderare tutti gli interessi in gioco, anche in bilanciamento con la forza della definitività dell’atto.

 

 

 


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