Appello Milano - Stop al cram down fiscale se l'accordo non è registrato
Pubblicato il 15/02/24 09:09 [Doc.12971]
di Fisco Oggi - Agenzia delle Entrate


Illegittima l'omologazione forzosa del Tribunale che non assicura il rigoroso rispetto della sequenza procedurale degli adempimenti previsti dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza

 

Con la sentenza n. 34026 del 16 novembre 2023, la Corte di appello di Milano ha affermato che ai fini dell’omologazione coattiva dell’accordo stipulato con uno dei creditori è necessario che tutti gli altri creditori ne possano essere informati e possano esercitare i loro diritti e cioè, non solo che il nuovo accordo sia attestato, ma anche depositato per la pubblicazione nel Registro delle imprese

Il caso
Una società formulava una proposta di transazione, ex articoli 57 e 63 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), indirizzata, tra gli altri, ad Agenzia delle entrate, Agenzia delle entrate-Riscossione e Inps.
Decorsi 90 giorni, nessuno dei creditori formalizzava il proprio assenso, mentre l’Agenzia delle entrate comunicava motivato provvedimento di rigetto.
La ricorrente depositava dinanzi al Tribunale di Milano ricorso per omologazione forzosa ex articolo 62, comma 2-bis del codice richiamato.
Il Tribunale - dopo aver rilevato una serie di criticità, compreso il fatto che nessun accordo con alcun creditore era stato raggiunto - omologava l’accordo concluso nelle more del procedimento con un creditore privato, di natura bancaria, con estensione all’Amministrazione finanziaria e all’Inps (cfr sentenza n. 512/2023).

Con la sentenza in esame, la Corte di appello di Milano ha accolto il reclamo dell’Agenzia e rigettato la domanda di cram down invocata a suo tempo nei confronti dell’ufficio richiamando al rigoroso rispetto della sequenza procedimentale prescritta dagli articoli 57 e seguenti CCII.

Osservazioni
Ancora una volta i giudici della Corte di appello milanese hanno ribadito il principio secondo cui, in assenza di un accordo sopraggiunto con alcuno dei creditori, non si può far luogo all’omologazione coattiva della proposta di transazione fiscale (cfr Corte di appello Milano, pronuncia del 23 febbraio 2023).
Nel caso in esame, mancando la pubblicazione nel Registro delle imprese dell’accordo concluso col creditore bancario, difetta la condizione per l’invocata operatività del cram down e cioè l’esistenza di un qualche accordo tra debitori e creditori, da intendersi come volontà contrattuale bilaterale o di più parti. Mancando, dunque, in radice un accordo tra le parti, non poteva esserci omologa coattiva da parte del Tribunale, non essendo ravvisabile alcun interesse concorsuale in funzione del quale la volontà del Fisco dovesse essere sacrificata a quella del debitore.

La sentenza in questione fa, altresì, chiarezza su un aspetto di particolare rilevanza e che attiene al meccanismo procedurale disegnato dall’articolo 48, comma 4 CCII e alle ripercussioni che quest’ultimo può avere sull’azionabilità del reclamo ex articolo 51 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
La reclamata, facendo appiglio alla risalente Cassazione sezione I, n. 5877/1991 (“Anche nel procedimento camerale, così come nel giudizio contenzioso ordinario, la qualità di parte e quindi di soggetto legittimato al reclamo ex art. 739 c.p.c, si determina, nei gradi del procedimento successivi al primo, esclusivamente “per relationem”, rispetto alla qualità di parte formalmente assunta in primo grado”), eccepiva l’inammissibilità del reclamo, evidenziando che l’Agenzia, non avendo proposto formale opposizione all’omologazione ex articolo 48, comma 4 CCII e non avendo partecipato al relativo procedimento, non fosse soggetto legittimato al reclamo.

Sul punto, i giudici della Corte di appello di Milano affermano, invece, che “in una situazione siffatta non è consentito dubitare della legittimità dell’iniziativa di Agenzia delle entrate, senza che possa assumere rilievo la mancata proposizione della opposizione all’omologazione”. In particolare, viene evidenziato che l’accordo concluso col creditore privato “è stato stipulato dopo oltre tre mesi dal deposito del ricorso ex art. 57 CCII, non è stato iscritto nel Registro delle imprese ed è stato omologato dal Tribunale senza neppure che sia stata disposta una qualche sua comunicazione ai creditori: dunque, è evidente che ad Agenzia delle entrate non è stata garantita, innanzitutto, la conoscenza dell’accordo, esigenza alla quale è preordinato il regime di pubblicità previsto dalla legge e, conseguentemente, le è stata inibita la possibilità di sottoporre le proprie ragioni al Tribunale attraverso la proposizione di rituale opposizione”.
Ebbene, nel riconoscere la fondezza del reclamo, la Corte di appello di Milano ha, di fatto, censurato il modus operandi del Tribunale che aveva imposto il cram down fiscale senza assicurare il rigoroso rispetto degli adempimenti procedurali che governano la procedura degli accordi di ristrutturazione.

Il sopraggiunto accordo con l’istituto bancario (raggiunto dopo oltre tre mesi dal deposito del ricorso!) non era, infatti, mai stato trasmesso ai creditori, tanto meno all’Agenzia delle entrate, né risultava essere stata iscritta nel Registro delle imprese alcuna domanda di omologa forzosa ulteriore e/o integrativa rispetto a quella originaria.
Di fatto, il giudizio per l’omologazione forzata era stato ricondotto a un mero colloquio a due tra il Tribunale di Milano e la Società, senza che fosse assicurata ai creditori la notizia del nuovo accordo mediante pubblicazione nel Registro delle Imprese.
In effetti, è solo a partire da quella data – e solo da allora – che sarebbero potuti decorrere i 30 giorni previsti dall’articolo 48, comma 4 CCII, per consentire ai creditori di costituirsi con formale opposizione.

Nel caso in esame, invero, è stata di fatto sterilizzata la ratio sottesa all’articolo 48, comma 4 CCII, di garantire al creditore dissenziente e a ogni altro interessato una finestra di intervento per la tutela delle proprie ragioni all’interno del procedimento unitario instaurato dal debitore ricorrente, collocata proprio tra il ricorso per l’omologa forzosa e l’omologa stessa.

I giudici del riesame hanno, dunque, affermato che “Il reclamo alla Corte di appello risulta essere, quindi, per l’ente, l’unico strumento per dolersi dell’irregolarità del procedimento e della lesione dei suoi diritti, pregiudicati dalla decisione del Tribunale di omologare l’accordo”, ripristinando quell’obbligo di buona fede e trasparenza cui deve essere ispirata tutta la materia della composizione della crisi d’impresa.
Ciò non significa che è precluso al debitore di formulare una proposta di accordo al creditore pubblico anche successiva a quella denegata, che possa essere accettata e portare consensualmente a un accordo definitivo da omologare, così come non gli è preclusa la possibilità di raggiungere accordi nuovi con i creditori, anche nelle more di un procedimento per l’omologazione già avviato.
È imprescindibile, però, che il creditore (dissenziente o meno) venga posto nelle condizioni di avere una conoscenza del piano di risanamento nella sua totalità, ivi comprese le proposte avanzate ai creditori privati e – a maggior ragione – gli accordi transattivi con essi eventualmente raggiunti, conoscenza che deve essere assicurata tassativamente attraverso la pubblicazione nel Registro delle imprese.

La sentenza in commento precisa, infatti, che tali ipotesi “deve essere osservata la sequenza procedimentale prescritta dall’art. 57 CCII, sì che tutti gli altri creditori ne possano essere informati e possano esercitare i loro diritti. È necessario, cioè, non soltanto che il nuovo accordo sia attestato, ma anche che sia depositato per la pubblicazione nel Registro delle imprese”.

 


© Riproduzione Riservata