La suprema Corte, con sentenza n. 27905 del 29 ottobre 2024, ha ritenuto che in materia tributaria si configura l’abuso del diritto quando si è in presenza di una o più costruzioni di puro artificio che, pur non contrastanti con alcuna specifica disposizione, siano realizzate per eludere l’imposizione e siano prive di sostanza commerciale ed economica.
I fatti di causa
Un atto di scissione formalizzato con rogito veniva riqualificato come atto di assegnazione ai soci di una società di beni immobili e, per effetto, venivano emessi un avviso di rettifica e l’avviso di accertamento per operazione elusiva nei confronti dei soggetti coinvolti. La predetta società, infatti, aveva acquistato e ceduto in godimento un immobile a due dei propri soci e, in seguito, posta in liquidazione, veniva realizzato un atto di scissione con il quale l’immobile veniva assegnato ai due soci aventi paritaria partecipazione. I contribuenti, dunque, impugnavano i provvedimenti impositivi presso la Ctp di Massa, che rigettava tutti i ricorsi riuniti.
In seguito, la Ctr della Toscana rigettava il gravame proposto dai contribuenti in quanto ritenuto inammissibile per eccessiva genericità. Contro tale pronuncia, veniva proposto ricorso per Cassazione che, reputata illegittima la previa decisione di inammissibilità del gravame, rinviava alla corte regionale per un nuovo esame nel merito. Riassunto il giudizio davanti alla Ctr della Toscana, veniva accolto l’appello dei contribuenti ritenendo che l’operazione straordinaria di scissione presentasse delle ragioni economiche intrinseche tali da portare all’annullamento degli atti impositivi impugnati.
L’Agenzia delle entrate, parallelamente a tale vicenda, notificava a un ex socio della società e a un erede di uno dei soci un atto di accertamento della responsabilità, come stabilito dall’articolo 36 del Dpr n. 602/1973. Tali atti subivano una vicenda impugnatoria analoga a quella previamente descritta giungendo, infine, all’annullamento degli atti impositivi da parte della Ctr della Toscana con sentenza n. 1413/2021 (analoga alla decisione n. 1415/2021, oggetto di altro giudizio). L’Amministrazione finanziaria ha proposto ricorso contro tale pronuncia di cui la Procura generale ha chiesto l’accoglimento.
La scissione societaria
L’istituto della scissione è stato introdotto nell’ordinamento nazionale mediante l’inserimento degli artt. da 2504 septies a 2504 decies del codice civile ad opera del Dlgs. n. 22/1991, con il quale il legislatore ha dato attuazione alla direttiva n. 82/891/CEE; tale normativa è stata successivamente riformata dal Dlgs. n. 6/2003, modificato dal Dlgs. n. 37/2004, così da prevederne la disciplina civilistica agli articoli 2506 e seguenti. La scissione realizza un’operazione straordinaria di riorganizzazione aziendale in ambito societario e può essere totale, quando la società che effettua l’operazione (scissa) trasferisce tutto il suo patrimonio a più società preesistenti o di nuova costituzione, oppure parziale, mediante la quale solo parte del patrimonio di una società viene assegnato ad altre società, preesistenti o di nuova costituzione.
Tale differenza comporta un’ulteriore conseguenza: la società scissa, nel caso di scissione totale, può attuare il proprio scioglimento senza che questo si configuri come una liquidazione, mentre nel caso di scissione parziale, anche se con patrimonio ridotto, la stessa può continuare la propria attività. La scissione, dunque, assurge ad istituto di per sé compatibile con la messa in liquidazione della società ed anche con la sottoposizione di quest’ultima a procedura concorsuale. Premessa la legittimità dell’istituto in parola, il legislatore ha previsto alcune forme di tutela per i soci, ma anche per i terzi (in particolare i creditori) a causa delle conseguenze sfavorevoli sulla garanzia patrimoniale del debitore che l’operazione può comportare nel singolo caso.
La tradizionale tesi della stabilità assoluta della scissione per la presenza di sufficienti rimedi endosocietari (l'opposizione dei creditori prevista dall’articolo 2503 cc) e dell'impossibilità di isolare all'interno di una complessa operazione di riorganizzazione societaria dei singoli negozi attributivi di beni e dispositivi è stata, del resto, in tempi recenti superata. Sia pure con riferimento alla tematica della revocatoria degli atti di scissione societari, su cui si manifestava un profondo dissidio nella giurisprudenza di merito, il rinvio pregiudiziale interpretativo sollevato dalla Corte d'appello di Napoli ha portato la Corte di giustizia Ue, con la sentenza C - 394/18 del 2020, a stabilire che le alternative predisposte dall'articolo 12, paragrafo 2 della direttiva 82/891 Cee costituiscono soltanto un "sistema minimo di tutela degli interessi dei creditori della scissa", come confermato dall'utilizzo dell'espressione "quanto meno" nella disposizione in argomento.
In tale prospettiva, dunque, la mancata previsione dell'azione revocatoria fra gli strumenti di reazione del creditore della società scissa non poteva essere interpretato in termini di esclusione del rimedio. Ciò ha portato la Cassazione, con sentenza n. 12047/2021, ad affermare che, conformemente a quanto statuito dalla Corte di giustizia Ue (con sentenza del 2020 in causa C - 394/18), la revocatoria ordinaria dell'atto di scissione societaria è ammissibile poiché mira ad ottenere l'inefficacia relativa di tale atto, così da renderlo inopponibile al solo creditore pregiudicato (al contrario di ciò che si verifica nell'opposizione dei creditori sociali prevista dall'articolo 2503 cc, che è finalizzata a farne valere l'invalidità), dovendosi ritenere che la tutela dei creditori, a fronte di atti societari, si estende sino a ricomprendervi, sia pure in via mediata, qualsiasi attribuzione patrimoniale, a sua volta, "indiretta" ivi contenuta.
La decisione della Cassazione e l’abuso del diritto
L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso contro la sentenza della Ctr della Toscana affidandolo ad un unico motivo: la decisione impugnata avrebbe erroneamente individuato quale valida ragione economica dell’atto di scissione quella di aver posto fine al dissidio esistente fra i soci a fronte della gestione antieconomica.
A parere dell’ufficio, invece, era necessario considerare l’operazione negoziale complessivamente intesa e rilevare come la scissione societaria, operata a seguito della giusta messa in liquidazione della società, non aveva alcuno scopo di riorganizzazione o razionalizzazione delle strutture societaria, ma solo quello di profittare del regime fiscale di neutralità della scissione attribuendo, per tale via, ai due soci l’immobile appartenente alla società scissa, contestualmente estinta. L’analisi non solo dell’atto terminale della sequenza negoziale (quindi la scissione) ma anche di tutti gli atti precedenti e successivi, secondo quanto ritenuto dall’Amministrazione finanziaria, avrebbe dovuto rivelare il reale scopo dell’operazione posta in essere: un reale fondamento economico o la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito. Quanto esposto costituisce il presupposto degli atti di responsabilità, come da articolo 36 del Dpr n. 602/1973.
Il motivo di ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate, sostengono i giudici di piazza Cavour, risulta fondato. La Suprema Corte di Cassazione ha affermato, infatti, che l’utilizzo dello strumento di scissione societaria per porre fine ad un conflitto tra i soci è un dato puramente affermato e non dimostrato, non essendo fondato su elementi sintomatici di tale conflitto aventi un’evidenza concreta. Il maggiore profilo di erroneità della decisione impugnata, dunque, emerge dalla mancata valutazione della sussistenza o meno di una previa situazione di stallo societario eventualmente tradottasi in atti contraddittori o impossibilità di funzionamento dell’assemblea dei soci. La scissione societaria non ha rappresentato, quindi, un modo per porre termine ad una progettualità imprenditoriale rivelatasi in perdita dal momento che la società in questione si è limitata a porre a disposizione dei suoi soci le unità immobiliari acquistate, addirittura senza corrispettivo, risultando in questo modo totalmente asservita ai soci stessi pur risultando ai terzi un soggetto distinto ed autonomo.
Quando la società è stata posta in liquidazione, lo scopo sociale principale avrebbe dovuto coincidere con quello della liquidazione delle attività e, previo pagamento dei debiti sociali, della distribuzione del residuo attivo ai soci. Un comportamento fisiologico, inoltre, avrebbe dovuto registrare la predisposizione di un bilancio di liquidazione e il tentativo di alienazione dei beni residui allo scopo di pagare le passività sociali; la società, invece, ha posto in essere una scissione non proporzionale di carattere estintivo con l’attribuzione ai due soci della proprietà delle due frazioni immobiliari di cui gli stessi avevano in precedenza goduto fruendo del regime fiscale di neutralità previsto dall’articolo 173 del Tuir. Ed è proprio la mancanza di fisiologicità del comportamento suddetto a far rientrare la fattispecie nell’alveo dell’abuso del diritto. In merito, occorre preliminarmente osservare come l’istituto dell’abuso del diritto non sia previsto in via generale dal nostro ordinamento.
Tuttavia, la dottrina negli ultimi anni ha individuato all’interno della Costituzione (articolo 2) e del codice civile alcune norme (si pensi, ad esempio, a quelle in materia di diritto di proprietà, o a quelle afferenti al campo delle obbligazioni o delle trattative precontrattuali) che tutelano in qualche modo la clausola generale sulla correttezza dei rapporti. È proprio la mancata correttezza del comportamento ad essere alla base dell’istituto in parola. In tale contesto la corte di Cassazione, a partire dalla sentenza n. 20106/2009, è arrivata a fornire una definizione giuridica del concetto di abuso di diritto affermando che di abuso si può parlare quando viene esercitato un potere o una facoltà con modalità non necessaria ed irrispettosa del dovere di correttezza e buona fede, con uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti.
Il divieto di abuso del diritto, quindi, può dirsi ormai principio definitivamente entrato a far parte dell’ordinamento giuridico e i suoi elementi costitutivi, così come precisati in più occasioni dalla stessa giurisprudenza di Cassazione, posso essere così individuati:
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la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto
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la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate
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la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico
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la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte
Da un punto di vista generale l’abuso del diritto, desumibile in base ai principi di capacità contributiva e di progressività stabiliti dall’articolo 53 della Costituzione, ricorre dunque ogni qual volta si sia in presenza di una o più costruzioni di puro artificio che, seppur non contrastanti con alcuna specifica disposizione, sono realizzate al fine di eludere l’imposizione e siano prive di sostanza commerciale ed economica.
Da un punto di vista più strettamente tributario, invece, e ricordato l’articolo 10 bis dello Statuto del contribuente, rubricato proprio “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”, osserviamo come tale principio, ribadito dalla più recente giurisprudenza di legittimità (Cassazione sezione V, n. 14674/2024), assurga a principio generale antielusivo che preclude al contribuente di conseguire vantaggi fiscali mediante l’uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta in assenza di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione.
Nel caso portato al vaglio giudiziale, dunque, non è in discussione che lo strumento giuridico della scissione societaria sia pienamente lecito ed utilizzabile quale operazione straordinaria di riorganizzazione societaria, ma si discute circa l’uso di tale strumento da parte di una società che di fatto non pare aver svolto un’autentica attività di impresa. La società in questione, secondo la ricostruzione della Cassazione, si è infatti limitata a concedere in godimento gratuito il proprio immobile ai soci e, dopo la messa in liquidazione, ha attribuito ai soci stessi mediante scissione il medesimo bene immobile precedentemente utilizzato senza corrispettivo realizzando un consistente vantaggio fiscale che l’ufficio dell’Amministrazione finanziaria ha puntualmente indicato.
Il giudice di merito avrebbe dovuto verificare la sussistenza o meno dell’operazione elusiva in modo complessivo, prendendo in considerazione anche le vicende collegate al mero atto di scissione in quanto il comportamento elusivo o abusivo, altrimenti, non sarebbe quasi mai accertabile. La pronuncia impugnata non si è attenuta a tale necessaria tipologia di riscontro ed è stata, dunque, cassata con rinvio per un nuovo esame, in conformità ai principi analizzati.