Derogabilità della regola dell'affidamento condiviso dei figli
Pubblicato il 10/09/18 08:39 [Doc.5113]
di Redazione IL CASO.it
Affidamento dei figli minori ad uno solo dei coniugi - Condizioni - Affidamento condiviso pregiudizievole nell'interesse del minore - Esercizio in maniera discontinua del diritto di visita da parte del coniuge non collocatario - Sussistenza.
La regola dell'affidamento condiviso dei figli è derogabile solo ove la sua applicazione risulti «pregiudizievole per l'interesse del minore», il che si verifica nell'ipotesi in cui il genitore non collocatario si sia reso totalmente inadempiente al diritto di visita perché residente all'estero, essendo tale comportamento indicativo dell'inidoneità ad affrontare quelle maggiori responsabilità che l'affido condiviso comporta anche a carico del genitore con il quale il figlio non coabiti stabilmente.
Cass. civ., 17 gennaio 2017, n. 977
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina Maria Cristina - Presidente -
Dott. GENOVESE Francesco Antonio - Consigliere -
Dott. BISOGNI Giacinto - Consigliere -
Dott. TERRUSI Francesco - Consigliere -
Dott. FALABELLA Massimo - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 18 febbraio 2009 avanti al Tribunale di Udine G.G. chiedeva che venisse pronunciata la propria separazione personale dalla coniuge V.A., con cui aveva contratto matrimonio in data (*) e con la quale aveva generato il figlio M., nato il (*). Nel predetto ricorso l'istante domandava altresì che la separazione fosse pronunciata con l'addebito alla moglie e che venisse disposto l'affido condiviso del minore M., con collocamento dello stesso presso la madre; chiedeva, in conseguenza, che la casa coniugale fosse assegnata alla stessa V. e che fosse stabilito a proprio carico l'assegno mensile di Euro 650,00, a titolo di concorso nel mantenimento del minore.
Il procedimento di primo grado, nel quale si costituiva V.A., si concludeva con la sentenza del Tribunale che, dichiarata la separazione personale dei coniugi, rigettava la domanda di addebito e affidava il figlio minore a entrambi i genitori, con collocazione dello stesso presso il padre, a cui era assegnata la casa coniugale e a cui era rimesso l'integrale mantenimento del ragazzo.
G.G. proponeva appello e, nella resistenza di V.A., la Corte di appello di Trieste, con sentenza depositata il 16 dicembre 2013, riformava parzialmente la pronuncia di prime cure nei termini che seguono: dichiarava che la separazione dei coniugi doveva essere addebitata alla moglie; affidava il figlio minore in via esclusiva al padre; revocava l'assegnazione all'appellante della casa coniugale di proprietà comune dei coniugi. Per quanto qui rileva, osservava il giudice dell'impugnazione essere stato dimostrato che in costanza di matrimonio l'appellata avesse avuto due relazioni extraconiugali: riteneva pertanto che, in presenza di tale quadro probatorio, fosse onere della stessa V. dimostrare, in modo rigoroso, che il matrimonio era già entrato in crisi per motivi diversi dalla propria infedeltà. La Corte friulana, con riguardo al tema dell'affidamento, attribuiva poi rilievo alla lontananza della madre (trasferitasi in (*)) dal figlio (rimasto a (*) col padre) e alla manifestata intenzione della stessa V. di non tornare in Italia nemmeno per i tre incontri minimi previsti dal consulente tecnico: in tale situazione, osservava il giudice dell'impugnazione, la madre avrebbe dovuto condividere le decisioni di maggiore importanza attinenti alla sfera personale patrimoniale di M. in assenza di qualsiasi rapporto con lo stesso, fatta eccezione per i contatti giornalieri intrattenuti mediante cellulare o skype.
Contro la sentenza della Corte di appello di Trieste V.A. ha proposto un ricorso per cassazione fondato su tre motivi. Resiste con controricorso G.G..
Motivi della decisione
Il primo motivo censura la sentenza impugnata a norma dell'art. 360 c.p.c., n. 3, ed è rubricato come violazione e falsa applicazione degli artt. 155, 155 bis e 155 quater c.c., con riguardo all'affidamento del minore G.M. in via esclusiva al padre. Lamenta la ricorrente che la sentenza impugnata, basandosi sulla distanza fisica tra la madre e il figlio, aveva costruito una motivazione illogica e contraria alle norme richiamate, basandola sul dato di un sostanziale disinteresse della medesima nei confronti del minore: circostanza, quest'ultima, smentita dai documenti e dalle risultanze delle indagini tecniche acquisite. In particolare, la consulenza tecnica disposta in grado di appello si era pronunciata in senso contrario rispetto all'affidamento mono-genitoriale a favore del padre, sottolineando come essa istante fosse stata descritta dal c.t.u. come madre presente e capace di seguire il bambino. D'altro canto, l'istante si era trasferita per ragioni niente affatto futili e aveva chiesto di portare con sè all'estero anche il figlio; inoltre, aveva sempre cercato, dopo la partenza, nonostante comportamenti gravemente ostruzionistici del controricorrente, di avere contatti quotidiani e costanti con il bambino. Aggiunge la ricorrente che la decisione impugnata risultava contrastante con il principio di diritto in forza del quale alla regola dell'affidamento condiviso dei figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per l'interesse del minore. In tal senso, le resistenze e i comportamenti non collaborativi di G. non potevano non incidere sul giudizio di idoneità del genitore affidatario, avendo anche riguardo a quanto attestato dai consulenti tecnici con riferimento al rapporto tra il padre ed il figlio. Secondo l'istante, poi, il trasferimento non poteva giustificare la scelta contraria all'affidamento condiviso, tenuto anche conto che l'oggettiva distanza esistente tra i luoghi di residenza del figlio e della madre poteva incidere solo sulla disciplina dei tempi e delle modalità della presenza del minore presso ciascun genitore ex art. 155 c.c., comma 2 e art. 155 quater c.c., comma 2.
Il motivo non è fondato.
Dispone l'art. 155 bis c.c., comma 1, nel testo vigente ratione temporis, che il giudice può disporre l'affidamento dei figli ad uno solo dei genitori qualora ritenga con provvedimento motivato che l'affidamento all'altro sia contrario all'interesse del minore.
La Corte di merito, nella fattispecie in esame, ha attribuito rilievo al fatto che l'odierna ricorrente nel corso di più di un anno (dall'estate del 2012 alla fine del 2013) non aveva mai fatto ritorno in Italia, nemmeno per il numero minimo di incontri (tre) indicati dal consulente tecnico.
Ora, questa Corte ha osservato come la regola dell'affidamento condiviso dei figli ad entrambi i genitori, prevista dall'art. 155 c.c., con riferimento alla separazione personale dei coniugi, è derogabile solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per l'interesse del minore (Cass. 2 dicembre 2010, n. 24526; Cass. 17 dicembre 2009, n. 26587; Cass. 18 giugno 2008, n. 16593). Ciò si verifica nel caso di esercizio in modo discontinuo del diritto di visita, come anche nell'ipotesi di totale inadempimento all'obbligo di corrispondere l'assegno di mantenimento in favore dei figli minori (Cass. 17 dicembre 2009, n. 26587). La valorizzazione, da parte della Corte di Trieste, dell'assenza di incontri tra la madre e il figlio nel lungo periodo preso in considerazione appare, dunque, pienamente coerente coi suindicati principi.
Gli ulteriori profili dedotti sfuggono, del resto, al sindacato della Corte di legittimità.
L'art. 155 bis, comma 1 cit. richiede, ben vero, che l'affidamento dei figli ad uno solo dei genitori debba essere disposto con "provvedimento motivato": ma la Corte di appello si è certamente conformata a detta prescrizione, recando la sentenza le argomentazioni atte a giustificare la revoca dell'affidamento condiviso.
Al riguardo, occorre rilevare che nella nuova formulazione del cit. n. 5, risultante dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012, mancante ogni riferimento letterale alla "motivazione" della sentenza impugnata, con la conseguenza che è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione. Al contempo, la fattispecie di cui dell'art. 360 c.p.c., n. 5, per come riformulata, ha introdotto nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. S.U. 7 aprile 2014, n. 8053).
Non coglie quindi nel segno la censura basata sulle risultanze peritali. Anche a voler prescindere dal fatto che sul punto il motivo è carente di autosufficienza - visto che lo stesso non riproduce il testo dell'elaborato, nè precisa quale sia la localizzazione dello stesso all'interno dei fascicoli di causa - è evidente che il profilo indicato non possa essere ricondotto alla previsione di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5: e ciò nemmeno ove la consulenza contenesse elementi di prova, giacchè il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito è estraneo alla suddetta previsione (Cass. 10 giugno 2016, n. 11892).
Analoghe considerazioni vanno svolte con riferimento alle motivazioni che avrebbero indotto la ricorrente a trasferirsi all'estero - profilo, questo, che non riveste decisività nel quadro della decisione assunta dalla Corte distrettuale e al giudizio espresso nella sentenza impugnata in ordine al rilievo che assumeva, in concreto, la possibilità, per la madre, di avere contatti giornalieri col figlio tramite cellulare o skype: a quest'ultimo riguardo va nondimeno osservato - per mera completezza - che il giudice di merito ha valutato come tali modalità di comunicazione non fossero idonee a surrogare le visite del genitore assente e tale apprezzamento, per le ragioni indicate, non è censurabile in questa sede.
Quanto, infine, alla denunciata carenza di motivazione "in positivo" dell'idoneità educativa di G.G., basterà osservare che la questione afferente tale idoneità non risulta sia stata introdotta tra i temi del dibattito processuale nella precedente fase del giudizio: tant'è che l'odierna ricorrente concludeva, in appello, per la conferma dell'affidamento del figlio a entrambi i genitori, con collocamento presso il padre (cfr. pag. 3 del ricorso). Qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è - del resto onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l'avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; cfr. pure: Cass. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. 26 febbraio 2007, n. 4391; Cass. 12 luglio 2006, n. 14599; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2270).
Peraltro, anche sul punto viene denunciato un vizio motivazionale che, per le ragioni indicate, non potrebbe avere ingresso nella presente sede.
Con il secondo motivo la sentenza è censurata a norma dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5: è denunciata la violazione degli artt. 143 e 151 c.c. e l'omesso esame di un fatto decisivo prospettato dalla ricorrente con riguardo alla valutazione dell'addebito della responsabilità della separazione. La Corte di Trieste, ad avviso del ricorrente, aveva mancato di considerare che la coppia, a seguito del matrimonio, celebrato nel 2005, non aveva stabilizzato un'unione in un'abitazione familiare nonostante vi fosse una relazione dalla quale, nel (*), era nato il figlio M.. In particolare, la sentenza del giudice di appello risultava essere viziata sia per l'assenza del nesso di causalità tra la fine del matrimonio e l'insorgere della relazione extraconiugale di V.A. con P.L., sia per la mancata motivazione circa la ritenuta sussistenza del detto nesso eziologico. Evidenzia, in particolare, l'istante che la violazione dei doveri coniugali non è sufficiente a fondare la pronuncia di addebito della separazione se non vi è pure prova che tale violazione abbia avuto una specifica efficienza causale del determinarsi della crisi coniugale. Con particolare riguardo al tema delle relazioni extraconiugali, l'istante evidenzia come avesse sempre negato che ne fosse intercorsa una con tale F., rilevando, altresì, come nessuna valida prova avesse dimostrato il contrario. Con riferimento invece alla frequentazione con P.L., essa aveva avuto inizio quando l'affectio coniugale era già venuta meno: anzi - ad avviso della ricorrente - tale relazione era stata conseguenza, e non causa, del venir meno dell'unione matrimoniale. Sul punto, osserva la ricorrente che grava sulla parte che richieda, per l'inosservanza dell'obbligo di fedeltà, l'addebito della separazione, l'onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza.
Il motivo è infondato.
La pronuncia impugnata, con la statuizione che qui interessa, risulta essersi conformata al principio per cui in tema di separazione tra coniugi, l'inosservanza dell'obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza, costituisce, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l'addebito della separazione al coniuge responsabile, semprechè non si constati, attraverso un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale (tra le tante: Cass. 14 agosto 2015, n. 16859; Cass. 17 giugno 2013, n. 16270, non massimata in termini; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2059, pure non massimata con riferimento al principio secondo cui l'inosservanza dell'obbligo di fedeltà coniugale fa presumere la non tollerabilità dell'ulteriore convivenza; Cass. 14 ottobre 2010, n. 21245, parimenti non massimata al riguardo; Cass. 7 dicembre 2007, n. 25618, Cass. 19 settembre 2006, n. 20256).
Ora, l'accertamento relativo alle infedeltà coniugali di V.A. - avendo anche riguardo al profilo afferente il dedotto erroneo o incompleto vaglio delle risultanze probatorie si sottrae al sindacato di legittimità: va qui richiamato quanto sopra esposto in ordine al perimetro applicativo dell'art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo vigente.
Il suddetto accertamento onerava poi l'odierna ricorrente della prova dell'inesistenza del nesso causale tra le relazioni extraconiugali intrattenute dall'istante e la crisi del rapporto matrimoniale: sicchè la stessa non può dolersi del fatto che quel nesso non sia stato provato, in termini affermativi, dalla controparte.
Il ricorso si chiude con un terzo ed ultimo motivo in cui, richiamandosi l'art. 360 c.p.c., n. 3, viene dedotta violazione o falsa applicazione della norma di cui all'art. 244 c.p.c., in merito alla valutazione della deposizione resa da due testimoni. La censura si riferisce a "testimonianze de relato in ordine ad un fatto privo di riferimenti spaziali e temporali, appreso da persona estranea al processo".
Il motivo è palesemente inammissibile per difetto di specificità, giacchè esso gravava la parte dell'onere di riprodurre nel ricorso il tenore esatto della risultanza processuale il cui inadeguato esame è censurato (ad es.: Cass. 5 settembre 2005, n. 17771; Cass. 3 settembre 2005, n. 17743; Cass. 21 aprile 2005 n. 8372; Cass. 20 agosto 2004 n. 16472; Cass. 16 marzo 2004, n. 5344; Cass. 21 ottobre 2003, n. 15751).
Non si vede, del resto, come la censura possa avere ad oggetto l'erronea applicazione dell'art. 244 c.p.c., visto che la ricorrente dibatte del valore probatorio di deposizioni testimoniali: sicchè il mezzo appare in definitiva preordinato a un riesame delle risultanze probatorie, operazione ovviamente preclusa nella presente sede.
In conclusione, il ricorso deve essere respinto, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Si dà atto dell'obbligo della parte ricorrente di procedere, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 1, comma 1 quater, al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali e oneri di legge; dà atto che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, parte ricorrente è tenuta al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 17 novembre 2016.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2017.
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