Per la divisione dell'immobile in comproprietà fra i coniugi separati vale il rito ordinario
Pubblicato il 27/09/18 00:00 [Doc.5182]
di Redazione IL CASO.it


Separazione dei coniugi - Domanda di divisione dell'immobile comune dei coniugi - Applicabilità del procedimento ex art.710 c.p.c. - Esclusione

La separazione consensuale è un negozio di diritto familiare avente un contenuto essenziale - il consenso reciproco a vivere separati, l'affidamento dei figli, l'assegno di mantenimento e l'assegnazione della casa familiare, ove ne ricorrano i presupposti - ed un contenuto eventuale, che trova solo occasione nella separazione, costituito da accordi patrimoniali del tutto autonomi che i coniugi concludono in relazione all'instaurazione di un regime di vita separata.

Ne consegue che questi ultimi non sono suscettibili di modifica in sede di ricorso ad hoc ex art.710 c.p.c., potendo essa riguardare unicamente le clausole aventi causa nella separazione personale, ma non i patti autonomi.

In particolare, la domanda di divisione dell'immobile in comproprietà costituente l'abitazione familiare dei coniugi va proposta nelle forme ordinarie del giudizio di scioglimento della comunione, e non secondo la disciplina dell'art.710 c.p.c., considerato che detta domanda attiene al regime della proprietà e non presenta dirette connessioni od interferenze sulle condizioni della separazione.


Cass. civ. Sez. II, 26 luglio 2018, n. 19847

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ORICCHIO Antonio - Presidente -
Dott. TEDESCO Giuseppe - Consigliere -
Dott. SCARPA Antonio - rel. Consigliere -
Dott. GIANNACCARI Rossana - Consigliere -
Dott. FORTUNATO Giuseppe - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
C.C., con citazione del 10 dicembre 2007, convenne innanzi al Tribunale di Trento il marito B.F.. L'attrice premise che lo stesso Tribunale aveva omologato in data (*) la separazione fra i coniugi, prevedendosi fra le condizioni l'impegno del B. a riconoscere in favore della C. il diritto di usufrutto su un immobile in comproprietà sito a Trento, e che tale impegno era rimasto inadempiuto; domandò perciò di provvedere a costituire l'usufrutto con sentenza; chiese inoltre di procedersi alla divisione di altro immobile, sito a (*), del quale in sede di separazione era stata concordata la comproprietà "pro indiviso", con condanna del B. al versamento di un indennizzo per l'uso esclusivo del bene. Il B. si costituì eccependo preliminarmente l'improcedibilità della domanda, sul presupposto del fatto che gli accordi in sede di separazione prevedevano l'uso esclusivo dell'immobile di Trento da parte della C. e di quello di (*) da parte sua, affinchè vi risiedesse con il figlio, e che per la modifica di tale regime era necessario procedere nelle forme di cui all'art. 710 c.p.c.; il convenuto spiegò in ogni caso domanda riconvenzionale onde ottenere dalla C. un indennizzo per l'uso esclusivo dell'immobile di (*) ed il rimborso di metà delle spese sostenute per la manutenzione dell'immobile di (*). Intervenne in causa B.G., figlio delle parti, chiedendo che venisse accertato il suo acquisto per usucapione della quota materna dell'immobile di (*). Il Tribunale, dichiarato inammissibile l'intervento di B.G., costituì ex art. 2932 c.c., diritto di usufrutto in favore della C. sull'immobile di (*); accolse la domanda di divisione dell'immobile di (*), procedendo all'assegnazione delle rispettive quote; rigettò le domande di indennizzo e compensò parzialmente le spese. Con citazione notificata il 9 novembre 2012 propose appello B.F. ed i contraddittori rimasero contumaci. La Corte d'Appello di Trento respinse il gravame. I giudici di secondo grado rilevarono che le condizioni di separazione prevedevano l'intestazione per quote indivise dell'immobile di (*), il che consentiva alla C. di domandarne la divisione, e assegnavano alla stessa l'utilizzo esclusivo dell'immobile di (*), con conseguente insussistenza del diritto dell'appellante ad un indennizzo. La Corte di Trento osservò infine, con riguardo ad una dichiarazione stragiudiziale di "rinunzia alla divisione" inviata dalla C. direttamente al giudice istruttore della causa di primo grado, che la stessa non poteva costituire un valido atto di rinuncia, non essendo stata prodotta in causa nel rispetto delle forme di cui agli artt. 74 ed 87 disp. att. c.p.c., tenuto altresì conto della circostanza che in sede di conclusioni il procuratore della C. aveva poi insistito nella richiesta di divisione.
Avverso tale sentenza B.F. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi, mentre gli intimati C.C. e B.G. non hanno svolto attività difensive.
1. Il primo motivo di ricorso denuncia l'omesso esame di fatto decisivo in ordine all'eccezione di improcedibilità della domanda della C. di divisione dell'immobile in (*) e di condanna dell'ex marito al pagamento di un corrispettivo per l'occupazione della quota del bene di sua spettanza, dovendo una simile domanda svolgersi con il rito previsto dall'art. 710 c.p.c..
Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 710 c.p.c., lamentando che la Corte d'appello non avrebbe tenuto in considerazione il fatto che gli accordi di separazione prevedevano che la quota ideale della C. dell'immobile di (*) fosse destinata al godimento da parte del figlio, e dunque in sostanza attribuivano la disponibilità dell'intero immobile al ricorrente ed al predetto figlio; sostiene B.F., pertanto, che la divisione dell'immobile in natura avrebbe comportato una modifica di tale assetto, e perciò doveva andare soggetta alla disciplina di cui all'art. 710 c.p.c.; si evidenzia nella censura come il verbale contenente le condizioni della separazione consensuale omologata prevedesse due distinte clausole, l'una con cui la signora C. riconosceva al signor B.F. la comproprietà del 50% dell'immobile di (*), impegnandosi al trasferimento della stessa quota al marito, l'altra con cui la signora C. consentiva al figlio G. l'uso della sua comproprietà.
I.1. I primi due motivi vanno esaminati congiuntamente, perchè connessi. Il primo motivo di ricorso presenta diffusi profili di inammissibilità ed è comunque infondato. L'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, nella specie applicabile ratione temporis, permette di denunciare per cassazione il vizio specifico relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ovvero ad un dato materiale, ad un episodio fenomenico rilevante ed alle sue ricadute in termini di diritto, oggetto di discussione processuale tra le parti e connotato da "decisività" (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Il primo motivo di ricorso per cassazione censura, invece, come omesso esame di fatto la decisione che, in realtà, la Corte di Trento ha espressamente reso da pagina 6 a pagina 9 della sentenza impugnata in ordine alla questione di diritto oggetto del primo motivo di appello del medesimo B.F.. Se il ricorrente intendeva lamentare l'omessa pronuncia sul suo motivo di appello, ciò doveva fare deducendo la violazione dell'art. 112 c.p.c. e non già l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in quanto il motivo di gravame non costituisce un fatto principale o secondario, bensì la specifica domanda sottesa alla proposizione dell'appello (Cass. Sez. 6-3, 16/03/2017, n. 6835). Se invece la censura era diretta contro la soluzione interpretativa data al motivo di gravame dalla Corte d'Appello, doveva allora essere denunciato un vizio di violazione di legge.
L'infondatezza delle censure, con riferimento in particolare alla fattispecie astratta dell'art. 710 c.p.c., trova poi argomento nel consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui la separazione consensuale è un negozio di diritto familiare avente un contenuto essenziale - il consenso reciproco a vivere separati, l'affidamento dei figli, l'assegno di mantenimento e l'assegnazione della casa familiare, ove ne ricorrano i presupposti - ed un contenuto eventuale, che trova solo occasione nella separazione, costituito da accordi patrimoniali del tutto autonomi che i coniugi concludono in relazione all'instaurazione di un regime di vita separata (nella specie, il riconoscimento della comproprietà della casa familiare e l'attribuzione di un diritto d'uso in favore del figlio). Ne consegue che questi ultimi non sono suscettibili di modifica in sede di ricorso ad hoc ex art. 710 c.p.c., potendo essa riguardare unicamente le clausole aventi causa nella separazione personale, ma non i patti autonomi, che restano a regolare i reciproci rapporti ai sensi dell'art. 1372 c.c.. In particolare, la domanda di divisione dell'immobile in comproprietà costituente l'abitazione familiare dei coniugi, concessa in godimento alla prole per patto intercorso in sede di separazione consensuale, va comunque proposta nelle forme ordinarie del giudizio di scioglimento della comunione, e non secondo la disciplina dell'art. 710 c.p.c., considerato che detta domanda attiene al regime della proprietà e non presenta dirette connessioni od interferenze sulle condizioni della separazione (cfr. Cass. Sez. 1, 22/12/1988, n. 7010; Cass. Sez. 1, 19/08/2015, n. 16909; Cass. Sez. 1, 22/11/2007, n. 24321). D'altro canto, non può il ricorrente far valere il diritto di uso dell'immobile riconosciuto in sede di separazione al figlio, ormai maggiorenne, trattandosi di un'eccezione de iure tertii.
11. Nel terzo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 74 ed 87 disp. att. c.p.c., lamentando che la Corte d'Appello avrebbe erroneamente escluso la validità della rinunzia agli atti - limitatamente alla domanda di divisione - contenuta nella dichiarazione extraprocessuale formata dalla C. e trasmessa al giudice istruttore (raccomandata del 25 ottobre 2010, in cui la signora C. dichiarava: "all'insaputa del mio avvocato Gianfranco de Bertolini, sono qui per chiedere l'interruzione della stessa o meglio la mia rinuncia alla divisione..."), omettendo di attribuire rilievo alla volontà manifestata in tal senso, da ritenersi prevalente rispetto alla disciplina delle produzioni documentali. Il quarto motivo di ricorso denuncia l'omesso esame di fatto con riferimento al medesimo punto di sentenza.
2.1. Terzo e quarto motivo di ricorso possono esaminarsi congiuntamente, in quanto connessi, e si rivelano infondati.
La Corte ha negato che la lettera raccomandata inviata il 25 ottobre 2010 dalla signora C. al Giudice istruttore della causa in tribunale valesse come rinuncia agli atti del giudizio, evidenziando come: all'udienza del 20 ottobre 2010 la causa venne rinviata per la precisazione delle conclusioni al 29 giugno 2011; in quella data le parti precisarono le rispettive conclusioni, contraddicendo sulla domanda di divisione, come pure nelle successive comparse conclusionali; il 25 novembre 2011 la difesa del B. depositò in cancelleria un'istanza volta al rilascio di copia di tale lettera raccomandata inviata in data 25 ottobre 2010 e dell'attestazione della presenza di tale missiva all'interno del fascicolo d'ufficio; il successivo 28 novembre 2011 il funzionario di cancelleria attestò la presenza nel fascicolo d'ufficio di una missiva indirizzata direttamente al giudice istruttore, che non risultava nè depositata in cancelleria, nè vistata da quest'ultimo; nelle memorie di replica il B. chiese di darsi atto della volontà della C. di rinunciare alla domanda, dichiarando di accettare la rinunzia, mentre la difesa della C. specificò che la missiva in questione era stata scritta ed inviata dalla parte in un momento di stanchezza e sconforto dovuti all'età ed all'asprezza del contenzioso, all'esito del rinvio della causa per la precisazione delle conclusioni a data piuttosto lontana, e con finalità meramente private e non abdicative della domanda; a fronte di tali considerazioni, il giudice istruttore rilevò in sentenza che la missiva era stata erroneamente inserita nel fascicolo d'ufficio - dovendo invece essere protocollata come corrispondenza - e ne escluse ogni validità come rinunzia alla domanda di divisione.
La decisione della Corte d'Appello di Trento è conforme alla giurisprudenza di questa Corte.
La rinuncia agli atti del giudizio può essere validamente espressa, oltre che nelle forme indicate dall'art. 306 c.p.c., anche mediante un atto extraprocessuale che costituisca una sicura prova della volontà manifestata dall'attore di voler porre fine al giudizio. Qualunque ne sia la forma, la rinuncia si perfeziona, come appare dal primo comma della norma predetta, nel caso vi siano parti interessate alla prosecuzione del processo, con l'accettazione delle medesime, portata a conoscenza del rinunziante; in caso contrario, con la mera notificazione alle altre parti, prescritta dell'art. 306 c.p.c., comma 2. Ove poi la rinunzia sia avvenuta mediante un atto stragiudiziale, affinchè il giudice possa constatarla e dichiarare l'estinzione del processo, è necessario che l'atto sia prodotto ritualmente in giudizio (così Cass. Sez. L, 13/08/1997, n. 7565; Cass. Sez. 3, 27/05/1980, n. 3463; Cass. Sez. 1, 14/11/1973, n. 3018).
Se, come nella specie, la rinuncia sia contenuta in una lettera raccomandata inviata a mezzo posta al giudice istruttore della causa - trattandosi di un deposito dell'atto irrituale, in quanto non previsto dalla legge: Cass. Sez. U, 04/03/2009, n. 5160 l'effetto estintivo non può che prodursi al momento in cui la stessa rinuncia sia accettata o quanto meno conosciuta dalle altre parti, il che nel caso in esame avvenne dopo la precisazione delle conclusioni svolta all'udienza del 29 giugno 2011, allorchè l'attrice smentì ogni propria volontà abdicativa.
3. Con il quinto motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell'art. 91 c.p.c. e l'omesso esame di fatto decisivo, assumendo che erroneamente la Corte di Trento avrebbe dichiarato inammissibile, perchè non argomentato, il suo motivo di appello volto alla condanna della C. al pagamento delle spese di primo grado, assumendo che non occorreva motivare in relazione alla decisione sulle spese, le quali seguono per legge la soccombenza.
3.1. Tale motivo è inammissibile. La Corte d'Appello dichiarò inammissibile per difetto di specificità il motivo di gravame relativo alla regolamentazione delle spese di primo grado, avendo l'appellante genericamente richiesto la rifusione delle stesse.
Quando, allora, il giudice d'appello abbia dichiarato inammissibile uno dei motivi di gravame, ritenendolo privo di specificità, il ricorrente per cassazione contro tale sentenza, ove intenda impedirne il passaggio in giudicato nella parte relativa alla dichiarata inammissibilità, ha l'onere di denunziare l'errore in cui è incorsa la sentenza gravata e di dimostrare che il motivo d'appello, ritenuto non specifico, aveva invece i requisiti prescritti dell'art. 342 c.p.c.. Pertanto, sono inammissibili in sede di legittimità le doglianze per violazione di legge o vizi della motivazione inerenti alla questione oggetto della declaratoria di inammissibilità del motivo di appello, la quale non sia stato oggetto di specifica censura per violazione dell'art. 342 c.p.c. (si veda Cass. Sez. 3, 09/03/1995, n. 2749). D'altro canto, essendosi il giudizio di primo grado concluso con una compensazione parziale delle spese processuali per reciproca soccombenza delle parti, il giudice d'appello, investito da impugnazione volta a chiedere unicamente l'accoglimento integrale delle domande ed eccezioni di merito di B.F., avendo deciso per la conferma della pronuncia del Tribunale, non poteva modificare la decisione sulle spese, proprio perchè il relativo capo della sentenza non aveva costituito oggetto di specifico motivo d'impugnazione.
4. Consegue il rigetto del ricorso.
Non occorre regolare le spese del giudizio di cassazione, in quanto gli intimati non hanno svolto attività difensive.
Sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater all'art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - dell'obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 28 marzo 2018.
Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2018.


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