Quando i tempi di guardia o prontezza in regime di reperibilità costituiscono orario di lavoro
Pubblicato il 11/03/21 08:29 [Doc.8786]
di Redazione IL CASO.it


Corte di giustizia dell'Unione europea COMUNICATO STAMPA n. 35/21 Lussemburgo, 9 marzo 2021 Sentenze nelle cause C-344/19, D.J. / Radiotelevizija Slovenija, e C-580/19, RJ / Stadt Offenbach am Main

Un periodo di guardia o prontezza in regime di reperibilità costituisce, nella sua interezza, orario di lavoro soltanto qualora i vincoli imposti al lavoratore pregiudichino in modo assai significativo la sua facoltà di gestire, nel corso di tale periodo, il proprio tempo libero

Non sono rilevanti le difficoltà organizzative che un periodo di guardia o prontezza può determinare per il lavoratore e che sono la conseguenza di fattori naturali o della libera scelta di costui

Nella causa C-344/19, un tecnico specializzato era incaricato di assicurare il funzionamento, durante vari giorni consecutivi, di centri di trasmissione televisiva situati in zone montane della Slovenia. Egli effettuava, oltre alle proprie dodici ore di lavoro ordinario, servizi di guardia (prontezza) di sei ore al giorno, in regime di reperibilità. Durante questi periodi, egli non era obbligato a restare nel centro di trasmissione in questione, ma doveva essere raggiungibile per telefono ed essere in grado di ritornare a tale centro di trasmissione entro il termine di un'ora in caso di necessità. Di fatto, tenuto conto della posizione geografica dei centri di trasmissione, difficilmente accessibili, egli era portato a soggiornare in questi ultimi durante i suoi servizi di prontezza, in un alloggio di servizio messo a sua disposizione dal suo datore di lavoro, senza grandi possibilità di dedicarsi ad attività di svago. Nella causa C-580/19, un funzionario esercitava attività di pompiere nella città di Offenbach am Main (Germania). A tale titolo, egli doveva, oltre al suo periodo di servizio ordinario, svolgere regolarmente periodi di prontezza in regime di reperibilità. Nel corso di questi ultimi, egli non era tenuto ad essere presente in un luogo designato dal suo datore di lavoro, ma doveva essere raggiungibile ed essere in grado di raggiungere, in caso di allarme, i confini della città entro un termine di 20 minuti, con la sua tenuta di servizio e con il veicolo di servizio messo a sua disposizione. I due interessati ritenevano che, a causa delle restrizioni che ne derivavano, i loro periodi di prontezza in regime di reperibilità dovessero essere riconosciuti, nella loro interezza, come orario di lavoro ed essere remunerati di conseguenza, indipendentemente dal fatto che essi avessero svolto o no un lavoro concreto durante tali periodi. Dopo il rigetto della sua domanda in primo e in secondo grado, il primo interessato ha proposto un ricorso per cassazione dinanzi al Vrhovno sodiš?e (Corte suprema, Slovenia). Il secondo interessato ha, per parte sua, adito il Verwaltungsgericht Darmstadt (Tribunale amministrativo di Darmstadt, Germania) a seguito del rifiuto del suo datore di lavoro di accogliere la sua domanda. Adita in via pregiudiziale da ciascuno dei giudici di cui sopra, la Corte precisa, segnatamente, in due sentenze che essa ha pronunciato riunita in Grande Sezione, in quale misura dei periodi di prontezza in regime di reperibilità possano essere qualificati come «orario di lavoro» o, al contrario, come «periodi di riposo» alla luce della direttiva 2003/88 1 . Giudizio della Corte In via preliminare, la Corte ricorda che il periodo di guardia o prontezza di un lavoratore deve essere qualificato o come «orario di lavoro» o come «periodo di riposo» ai sensi della direttiva 2003/88, tenendo presente che queste due nozioni si escludono reciprocamente. Inoltre, un periodo durante il quale nessuna attività venga effettivamente esercitata dal lavoratore a beneficio del suo datore di lavoro non costituisce necessariamente un «periodo di riposo». Infatti, risulta segnatamente dalla giurisprudenza della Corte che un periodo di guardia o prontezza deve essere automaticamente qualificato come «orario di lavoro» nel caso in cui il lavoratore abbia l'obbligo, durante questo periodo, di restare sul suo luogo di lavoro, distinto dal suo domicilio, e di rimanere ivi a disposizione del suo datore di lavoro. Fatte queste precisazioni, la Corte giudica, in primo luogo, che i periodi di guardia o prontezza, compresi quelli in regime di reperibilità, rientrano parimenti, nella loro interezza, nella nozione di «orario di lavoro» qualora i vincoli imposti al lavoratore nel corso di detti periodi pregiudichino in modo oggettivo e assai significativo la sua facoltà di gestire liberamente il tempo durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti e di dedicarsi ai propri interessi. Per converso, ove manchino vincoli siffatti, soltanto il tempo connesso alla prestazione di lavoro che viene, se del caso, effettivamente realizzata nel corso di tali periodi deve essere considerato come «orario di lavoro». A questo proposito, la Corte evidenzia che, al fine di valutare se un periodo di guardia o prontezza costituisca «orario di lavoro», soltanto i vincoli imposti al lavoratore - indifferentemente - da una normativa nazionale, da un accordo collettivo o dal datore di lavoro del lavoratore stesso, possono essere presi in considerazione. Invece, le difficoltà organizzative che un periodo di guardia o prontezza può causare ad un lavoratore e che sono la conseguenza di elementi naturali o della libera scelta di quest'ultimo non sono rilevanti. È questo ad esempio il caso che si presenta qualora la zona, da cui il lavoratore non può, in pratica, allontanarsi durante un periodo di prontezza in regime di reperibilità, sia poco propizia per le attività di svago. Inoltre, la Corte sottolinea che spetta ai giudici nazionali effettuare una valutazione globale dell'insieme delle circostanze del caso di specie al fine di verificare se un periodo di prontezza in regime di reperibilità debba essere qualificato come «orario di lavoro», dato che tale qualificazione non è in effetti automatica in assenza di un obbligo di restare sul luogo di lavoro. A tal fine, da un lato, è necessario prendere in considerazione il carattere ragionevole del termine di cui dispone il lavoratore per riprendere le proprie attività professionali a partire dal momento in cui il suo datore di lavoro sollecita il suo intervento, il che, di norma, implica che egli raggiunga il suo luogo di lavoro. Tuttavia, la Corte sottolinea che le conseguenze di un termine siffatto devono essere valutate in maniera concreta, tenendo conto non soltanto degli altri vincoli che sono imposti al lavoratore, come l'obbligo di essere munito di un equipaggiamento specifico qualora egli debba presentarsi sul suo luogo di lavoro, ma anche delle facilitazioni che gli vengono concesse. Simili facilitazioni possono consistere, ad esempio, nella messa a disposizione di un veicolo di servizio che permetta di beneficiare di speciali deroghe al codice della strada. Dall'altro lato, i giudici nazionali devono anche tener conto della frequenza media degli interventi realizzati da un lavoratore nel corso dei suoi periodi di guardia o prontezza, qualora essa possa essere oggettivamente stimata. In secondo luogo, la Corte sottolinea che le modalità di remunerazione dei lavoratori per i periodi di guardia o prontezza non ricadono sotto la direttiva 2003/88. Pertanto, quest'ultima non osta ad una normativa nazionale, ad un accordo collettivo di lavoro o ad una decisione di un datore di lavoro che, ai fini della remunerazione di detti periodi, prenda in considerazione in maniera differente i periodi nel corso dei quali vengono realmente effettuate delle prestazioni di lavoro e quelli durante i quali non viene svolto alcun lavoro effettivo, anche qualora tali periodi debbano essere considerati, nella loro totalità, come «orario di lavoro». Per quanto riguarda la remunerazione dei periodi di guardia o prontezza che, al contrario, non possono essere qualificati come «orario di lavoro», la direttiva 2003/88 non osta neppure al versamento di un importo inteso a compensare i disagi causati al lavoratore da tali periodi. In terzo luogo, la Corte rileva che il fatto che un periodo di guardia o prontezza che non può essere qualificato come «orario di lavoro» sia considerato come «periodo di riposo» non influisce sugli obblighi specifici previsti dalla direttiva 89/391 2 e incombenti ai datori di lavoro. In particolare, questi ultimi non possono istituire periodi di guardia o prontezza che rappresentino, per la loro lunghezza o la loro frequenza, un rischio per la sicurezza o la salute dei lavoratori e ciò indipendentemente dal fatto che tali periodi siano qualificati come «periodi di riposo», ai sensi della direttiva 2003/88.


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