Il termine di sessanta giorni dalla consegna della copia del processo verbale di chiusura delle ispezioni presso la sede del contribuente, non riguarda le verifiche "a tavolino"
Pubblicato il 14/03/23 00:00 [Doc.11811]
di Fisco Oggi - Agenzia delle Entrate


Con l'ordinanza n. 861 del 13 gennaio 2023 la Cassazione, rigettando il ricorso presentato dal contribuente, ha chiarito che l'accertamento parziale non costituisce un metodo di accertamento autonomo rispetto a quello ordinario previsto dagli articoli 38 e 39 del Dpr n. 600/1973, e dagli articoli 54 e 55 del Dpr n. 633/1972, bensì una modalità procedurale che ne segue le medesime regole, con la conseguenza che il relativo oggetto non è circoscritto ad alcuna categorie di redditi e la prova può essere validamente raggiunta anche in via presuntiva.

Con la medesima pronuncia, la Corte ha stabilito, inoltre, che la nullità dell'accertamento derivante dal mancato rispetto del termine dilatorio di cui all'articolo 12, comma 7, dello Statuto del contribuente riguarda solo ed esclusivamente i casi di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività del contribuente e non anche, invece, le cosiddette verifiche a tavolino. La norma prevede, infatti, che l'inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l'emanazione dell'avviso di accertamento, decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un'ispezione o una verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni, determini l'illegittimità dell'atto impositivo emesso ante tempus, essendo detto termine posto a garanzia del corretto dispiegarsi del contraddittorio procedimentale.

Il fatto e il ricorso in Cassazione
L'Agenzia delle entrate emetteva, nei confronti del contribuente, un avviso di accertamento per importi Irpef, Irap e Iva non versati, fondandolo su presunzioni derivanti dalla documentazione extracontabile rinvenuta dalla Guardia di finanza presso l'abitazione del medesimo, in relazione alla quale lo stesso contribuente non aveva saputo fornire idonea giustificazione.
Avverso tale atto impositivo, il contribuente proponeva ricorso dinanzi alla commissione tributaria di primo grado, che lo rigettava. Proponeva, dunque, appello dinanzi ai giudici tributari di secondo grado, che continuavano, però, a dare ragione all'operato del Fisco, rigettando l'appello proposto dal cittadino.
Il contribuente decideva, dunque, di ricorrere in ultima istanza dinanzi alla Corte di cassazione con apposito ricorso, avverso il quale resisteva con controricorso l'Agenzia delle entrate.

Nello specifico, il contribuente lamentava violazione e falsa applicazione dell'articolo 41-bis del Dpr n. 600/1973, in relazione all'articolo 360 cpc, comma 1, n. 3, ritenendo che gli avvisi di accertamento parziale, quale quello in esame, debbano fondarsi su dati di assoluta certezza e non già su mere presunzioni.
Contestava, inoltre, violazione e falsa applicazione dell'articolo 12, commi 2 e 7, dello Statuto del contribuente (legge n. 212/2000), evidenziando l'emissione ante tempus dell'avviso di accertamento. Il contribuente sosteneva, infatti, che l'atto fosse stato emesso a seguito di richiesta di informazioni da parte dell'Agenzia, sicché il termine dilatorio di sessanta giorni avrebbe dovuto essere computato dalla data di tale richiesta. Lamentava, inoltre, il fatto che l'avviso di accertamento fosse fondato, a suo giudizio, su verifiche ulteriori nei confronti di altri contribuenti, delle quali sarebbe stata omessa l'allegazione, e della circostanza che non sarebbe stato informato dei suoi diritti, secondo la previsione dell'articolo 12, comma 2, dello Statuto del contribuente.

Il quadro normativo di riferimento
Esaminando le norme che vengono in questione nella vicenda, rileviamo come, ai sensi dell'articolo 41-bis del Dpr n. 600/1973, i competenti uffici dell'Agenzia possono, qualora da attività istruttorie risultino elementi che consentono di stabilire l'esistenza di un reddito non dichiarato o il maggiore ammontare di un reddito parzialmente dichiarato, nonché l'esistenza di imposte o di maggiori imposte non versate, limitarsi ad accertare il reddito o il maggior reddito imponibili, ovvero la maggiore imposta da versare, dando vita a un cosiddetto accertamento parziale, senza pregiudizio dell'ulteriore azione accertatrice.

Ai sensi, invece, del comma 2 dell'articolo 12 dello Statuto del contribuente, lo stesso, quando viene iniziata una verifica, ha diritto di essere informato delle ragioni che l'abbiano giustificata e dell'oggetto della medesima, della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria, nonché dei diritti e degli obblighi che gli vanno riconosciuti in occasione delle verifiche stesse.
Il successivo comma 7 del medesimo articolo 12 dispone, poi, che nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori, prevedendo che l'avviso di accertamento non possa essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza.

La decisione della Corte
Pronunciandosi definitivamente sulla questione, i magistrati di piazza Cavour hanno dato torto al contribuente, rigettando il suo ricorso.
La Corte di legittimità ha, infatti, chiarito, come l'accertamento parziale non rappresenti un metodo di accertamento autonomo rispetto a quello ordinario previsto dagli articoli 38 e 39 del Dpr n. 600/1973 (per quanto concerne le imposte sui redditi), e dagli articoli 54 e 55 del Dpr n. 633/ 1972 (per quanto riguarda l'Iva), bensì una modalità procedurale che ne segue le medesime regole, con la conseguenza che il relativo oggetto non è circoscritto ad alcune categorie di redditi e la prova può essere validamente raggiunta dall'ufficio anche in via presuntiva.

In merito, i giudici romani hanno richiamato anche la precedente decisione conforme della Corte di cassazione n. 28681/2019 a mente della quale "l'accertamento parziale, che è uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, non costituisce un metodo di accertamento autonomo rispetto alle previsioni di cui agli artt. 38 e 39, D.P.R. n. 600 del 1973 e 54 e 55, D.P.R. n. 633 del 1972, bensì una modalità procedurale che ne segue le stesse regole, per cui può basarsi senza limiti anche sul metodo induttivo ed il relativo avviso può essere emesso pur in presenza di una contabilità tenuta in modo regolare".

Con riferimento alle doglianze del contribuente in merito all'articolo 12 della legge n. 212/2000, i magistrati romani hanno, invece, innanzitutto sottolineato come, in punto di fatto, i giudici tributari abbiano accertato il pieno rispetto del termine dilatorio previsto dalla norma in commento, giudicando, quindi, pienamente corretto l'operato dell'ufficio e rendendo, quindi, questa e altre doglianze fattuali del contribuente insindacabili dinanzi alla Corte.
Fermo quanto sopra, la Cassazione ha tenuto, comunque, a precisare che il termine dilatorio di sessanta giorni per l'emanazione dell'avviso di accertamento - decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un'ispezione o una verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni - determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l'illegittimità dell'atto impositivo emesso ante tempus, poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, che costituisce espressione dei principi, di diretta derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede a cui devono ispirarsi i rapporti tra amministrazione e contribuente. Quindi, hanno chiarito i supremi giudici, la nullità derivante dal mancato rispetto del termine dilatorio riguarda - anche con riferimento all'Iva - solo ed esclusivamente il triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività e non anche le cosiddette verifiche a tavolino.

E proprio con riferimento alle verifiche a tavolino la Corte ha ricordato come, per sua costante e pressoché univoca giurisprudenza (sul punto si veda la pronuncia a sezioni unite n. 24823/2015), non sussista per l'Amministrazione finanziaria, con riferimento ai tributi "non armonizzati", alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, mentre con riguardo ai tributi "armonizzati", secondo quanto emerge dal diritto dell'unione europea, l'Agenzia è tenuta a porre in essere un contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l'invalidità dell'atto solo allorquando il contribuente abbia assolto all'onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un'opposizione meramente pretestuosa.


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