La regolare contabilità societaria è un elemento compatibile con la frode
Pubblicato il 18/03/23 00:00 [Doc.11829]
di Fisco Oggi - Agenzia delle Entrate


Il giudice di appello ha erroneamente dato valore alla correttezza dei registri che, invece, anche in base al costante orientamento di legittimità, sono facilmente falsificabili

In presenza di dichiarazione d'intento ideologicamente falsa, perché emessa da soggetto privo dei relativi requisiti, il contribuente cedente deve dimostrare l'assenza di un proprio coinvolgimento nell'attività fraudolenta. Respinta la tesi dei primi due gradi del giudizio secondo cui l'ufficio non aveva fornito elementi per dimostrare che la società era consapevole della falsità delle lettere d'intento. Lo ha affermato la Cassazione nell'ordinanza n. 594 dell'11 gennaio 2023.

I fatti
La curatela del fallimento di una srl ha impugnato gli avvisi di rettifica Iva per gli anni d'imposta 1995, 1996 e 1997, con i quali, l'ufficio aveva recuperato, tra l'altro, l'Iva dovuta con riferimento a fatture emesse senza l'applicazione di imposta (ex articolo 8, Dpr n. 633/1972), a seguito di dichiarazioni di intento ritenute false.
In particolare, gli avvisi scaturivano dal controllo effettuato dalla GdF e concernente i rapporti commerciali intrattenuti dalla società con imprese "sospette" e cioè con una società fornitrice e con un'altra società acquirente in esenzione di imposta ex art. 8, Dpr n. 633/1972, entrambe riconducili allo stesso legale rappresentante e protagoniste di un ben delineato meccanismo di frode: la società fornitrice cedeva dei beni (materiale informatico) con addebito di Iva alla contribuente e quest'ultima, a sua volta, rivendeva la merce alla società acquirente senza imposta, sulla base di false dichiarazioni di intento.

In realtà, poiché i beni ceduti alla contribuente erano già di sua proprietà, essendo stati acquistati dietro suo incarico in Paesi comunitari da imprese che poi risultavano formali venditrici, la stessa contribuente finiva per disporre illegittimamente di un ingente credito di imposta, senza avere alcun debito nei confronti dell'erario a seguito delle successive vendite compiute ex articolo 8, Dpr n. 633/1972.

L'esito di entrambi i gradi di giudizio di merito è stato favorevole alla contribuente. Il giudice di primo grado ha annullato gli avvisi, ritenendo che, nella controversia, «carattere dirimente assume … l'eccepita carenza di prova…La ricostruzione probatoria effettuata dall'Agenzia poggia su elementi che al più possono essere considerati meramente indiziari». Tali erano state considerate le dichiarazioni rese dal legale rappresentante alla Gdf dalle quali emergevano rapporti personali che, a parere del Collegio di primo grado, erano certamente deteriorati, ma non potevano costituire la prova delle operazioni societarie contestate, soprattutto considerando che, nella fattispecie, sussistevano «tutti quei requisiti di regolare contabilizzazione, logica imputazione di costi e ricavi e loro inequivocabile correlazione».
Non solo, quindi, erano assenti elementi di prova piena, ma neppure poteva rinvenirsi la sussistenza di presunzioni gravi, precise e concordanti in ordine all'emissione di fatture senza applicazione d'imposta a fronte di dichiarazioni di intento per esportazioni ritenute false. Anche il giudice di appello, confermando la sentenza di primo grado, ha ritenuto che la contestazione della consapevolezza della falsità delle lettere di intento «perché provenienti da società cartiere» e per «la mancanza del requisito di esportatore abituale non era corroborata da nessun elemento di prova.» L'ufficio, quindi, non aveva fornito elementi per dimostrare che la società contribuente fosse consapevole della suddetta falsità.

L'Agenzia ha proposto ricorso per Cassazione, lamentando violazione di legge (articoli 17, 19, 21, comma 7, Dpr n. 633/1972, articolo 6, Dlgs n. 471/1997 e 2697 codice civile), poiché il giudice di secondo grado aveva erroneamente applicato le regole sul riparto dell'onere probatorio, posto che, con riferimento alle false dichiarazioni d'intento, emesse dalle società cartiere, spettava alla società (non ancora fallita all'epoca dei fatti contestati) provare la mancanza di consapevolezza della falsità contestata.
La Cassazione, riconoscendo fondato il motivo, ha richiamato il proprio orientamento nei casi di operazione soggettivamente inesistente di tipo triangolare, strutturalmente poco complessa e caratterizzata dalla interposizione fittizia di un soggetto terzo tra il cedente ed il cessionario italiano. In tali fattispecie, la Corte ha affermato che l'onere probatorio a carico della AF (sulla consapevolezza da parte del cessionario che il corrispettivo della cessione sia versato al soggetto terzo non legittimato alla rivalsa né assoggettato all'obbligo del pagamento dell'imposta) può essere soddisfatto già con la dimostrazione che l'interposto sia privo di dotazione personale e strumentale adeguata alla prestazione fatturata, mentre spetta al contribuente-cessionario fornire la prova contraria della buona fede con cui ha svolto le trattative ed acquistato la merce, ritenendo incolpevolmente che essa fosse realmente fornita dalla persona interposta, dimostrando di avere adoperato, per non essere coinvolto in un'operazione volta ad evadere l'imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto (Cassazione, n. 15369/2020).

La Corte ha chiarito che tali principi consolidati trovano applicazione «anche per quanto riguarda il recupero dell'IVA sulle cessioni all'esportazione in regime di sospensione d'imposta ex art. 8 d.P.R. n. 633 del 1972», e cioè nelle fattispecie nelle quali si è «in presenza di dichiarazione d'intento ideologicamente falsa, perché emessa da soggetto privo dei relativi requisiti, occorre che il contribuente cedente dimostri l'assenza di un proprio coinvolgimento nell'attività fraudolenta, ossia di non essere stato a conoscenza dell'assenza delle condizioni legali per l'applicazione del regime di non imponibilità o di non essersene potuto rendere conto pur avendo adottato tutte le ragionevoli misure in suo potere» (Cassazione, ordinanza n. 594/2023).

Osservazioni
I giudici di legittimità hanno ribadito che, per orientamento consolidato, il beneficio fiscale della non imponibilità delle cessioni all'esportazione compiute nei confronti di esportatori abituali «non può essere correlato alla sola formale sussistenza della dichiarazione, occorrendo che il contribuente cedente dimostri, in caso di dichiarazioni ideologicamente false, l'assenza di un proprio coinvolgimento nell'attività fraudolenta, ossia di non essere stato a conoscenza dell'assenza delle condizioni legali per l'applicazione del regime di non imponibilità o di non essersene potuto rendere conto pur avendo adottato tutte le ragionevoli misure in suo potere» al fine di assicurarsi che la cessione effettuata non lo conducesse a partecipare alla frode (Cassazione n. 12751/2011, n. 176/2015, n. 19896/2016, n. 25359/2020, n. 28631/2021, n. 6786/2022).

Il giudice del gravame si è discostato da tale orientamento, non avendo considerato, unitamente alle dichiarazioni rese da terzi, il valore sintomatico degli altri elementi indicati dall'Amministrazione finanziaria negli atti impositivi (e richiamati, in ossequio al principio di autosufficienza, nel ricorso), quali, a titolo meramente esemplificativo, la riconducibilità, al medesimo gruppo societario, della società che forniva i beni alla contribuente e di quella che poi li acquistava in esenzione di imposta emettendo le false dichiarazioni di intento, l'omessa presentazione da parte delle predette società delle dichiarazioni fiscali obbligatorie, l'emissione, da parte di una delle società fornitrici, di fatture anche dopo la cessazione dell'attività.

Con riferimento alla valutazione dei fatti noti addotti dall'ufficio (gli elementi indiziari), i giudici di piazza Cavour hanno precisato che spetta al giudice di merito apprezzare l'efficacia sintomatica dei singoli fatti noti, i quali vanno valutati sia analiticamente (dando un adeguato peso ponderale a ciascun elemento), sia sinteticamente nella loro globalità, valutando se la combinazione di tali elementi sia in grado di fornire una valida prova presuntiva (Cassazione, n. 19353/2020, n. 26802/2020, n. 20003/2022).

Nella fattispecie in esame, inoltre, il giudice di appello ha erroneamente valorizzato la regolarità della contabilità della società contribuente, che, invece, per costante orientamento di legittimità, non assume alcun rilievo, in quanto si tratta di una circostanza compatibile con la frode, vista la facile falsificazione di tale documentazione (Cassazione, n. 20059/2014), alterando così, di fatto, le regole di ripartizione dell'onere probatorio gravanti sulle parti.
Sarà la Corte di giustizia di secondo grado, quale giudice del rinvio, ad effettuare un nuovo esame della fattispecie alla luce di principi di legittimità consolidati in materia.


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