Qual è l’impatto economico dell’elusione fiscale attuata dalle imprese multinazionali e quali sono le misure messe in campo a livello internazionale per arginare il fenomeno. Sono alcuni degli argomenti i trattati nel paper “Clever planning or unfair play? Exploring the economic and statistical impacts of tax avoidance by multinationals”, pubblicato da Banca d’Italia nell’ambito della collana “Questioni di economia e finanza”.
L’elusione fiscale e le sue conseguenze
Il fenomeno dell’elusione fiscale comporta molteplici effetti negativi, primo fra tutti la sottrazione di entrate nelle casse degli Stati. Il paper mette nero su bianco alcune cifre fornite dalla cosiddetta “letteratura empirica”: a livello globale il mancato gettito va da 49 a 550-640 bilioni di dollari. Ma le distorsioni sul sistema economico non si fermano qui. Tramite una pianificazione fiscale aggressiva, infatti, le multinazionali possono eludere il fisco nazionale spostando profitti in altri Stati con tassazioni più basse. Ciò comporta una competizione non equa con le aziende nazionali, che non possono fruire delle stesse possibilità. E ancora, l’elusione comporta inefficienze anche sul piano degli investimenti. Le multinazionali, infatti, possono spostare i profitti nei Paesi che garantiscono imposte più basse sui capitali, riducendo così il costo dei capitali necessari agli investimenti. In questo modo, gli investimenti vengono concentrati in aziende e settori con maggiori possibilità di elusione. Infine, l’elusione aumenta la complessità fiscale perché conduce gli Stati ad adottare misure antielusive nazionali, che rendono più complicate le norme tributarie e aumentano i costi di compliance per tutte le imprese.
Le strategie messe in atto per eludere
Come fanno le multinazionali a eludere il fisco? Il paper passa in rassegna i principali strumenti come il transfer pricing o lo spostamento degli asset intangibili (brevetti, marchi, diritti di copyright, eccetera) in Paesi a bassa tassazione. Un’altra strategia comporta la possibilità di allocare capitali nei Paesi a bassa fiscalità e finanziare le affiliate nei Paesi ad alta tassazione tramite prestiti infragruppo. Viene evidenziata anche la strategia messa in atto dalle aziende multinazionali del settore digitale. In sostanza, queste imprese vendono i propri servizi immateriali in diversi Paesi, all’interno dei quali però non costituiscono una stabile organizzazione, in modo da poter essere tassate solo nello Stato dove scelgono di avere la residenza fiscale, di solito con un’imposizione conveniente. O ancora, in alcuni casi si sfruttano le incoerenze nella definizione di residenza fiscale delle società tra i vari Paesi, costituendo società non residenti in nessuno Stato, le cosiddette “entità apolidi”.
Focus sull’imposta societaria
Sotto analisi anche la Cit (Corporate income tax), l’imposta sui redditi societari. In particolare, il paper evidenzia come le entrate provenienti da questa imposta per i Paesi del G7 e dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) siano rimaste sostanzialmente stabili nel periodo 1980-2021, nonostante si sia verificata una progressiva riduzione delle aliquote: nel periodo preso in esame l’aliquota media è passata dal 40,1% al 23,4%. I ricercatori propongono alcune ipotesi sulle eventuali motivazioni. La prima riguarda le misure adottate per limitare la deducibilità dell’ammortamento delle attività, dei costi per interessi e delle perdite fiscali, in modo da mantenere ampia la base imponibile societaria. Un'altra motivazione potrebbe essere, sostiene il documento, l'attuazione delle misure Ocse sull’erosione della base imponibile e lo spostamento dei profitti.
Cosa succede a livello internazionale
Il paper analizza anche le azioni di politica fiscale messe in campo a livello internazionale proprio per ridurre l’elusione delle grandi aziende. Si parte dal Piano di azione “Beps” (Base Erosion and Profit Shifting) per arrivare al pacchetto dei due pilastri (Beps 2.0) approvato dopo tre anni di negoziazioni nell’ottobre del 2021. Il primo pilastro ha l’obiettivo di adattare le regole di fiscalità internazionale agli sviluppi di un mercato sempre più digitalizzato, mentre il secondo intende introdurre un’imposta minima globale per le imprese multinazionali.
Secondo gli autori del paper, il primo pilastro porterà entrate limitate, tra lo 0,5% e l'1,5% del gettito fiscale globale, mentre il secondo dovrebbe generare entrate aggiuntive pari a circa il 9% della Cit (Corporate income tax) globale.