La sentenza con cui una società viene condannata alla restituzione di somme, sconta l’imposta di registro in misura proporzionale anche nel caso in cui si tratti di importi relativi a una prestazione che rientra nel campo di applicazione dell’Iva.
Questo il principio espresso dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 35043 del 14 dicembre 2023.
Alla base della pronuncia c’è la sentenza di una Corte d’appello con la quale una società per azioni era stata condannata a restituire una determinata somma a una società a responsabilità limitata.
In sede di registrazione della sentenza, l’ufficio territoriale dell’Agenzia delle entrate aveva chiesto il pagamento dell’imposta di registro in misura proporzionale sulla base imponibile costituita dalla somma da restituire.
A seguito del ricorso presentato dalla società destinataria dell’avviso di liquidazione, sia la Ctp che la Commissione tributaria regionale del Lazio (decisione n. 4326/2021) hanno ritenuto corretta l’applicazione dell’imposta di registro con l’aliquota del 3%, in conformità a quanto ritenuto dall’ufficio.
In particolare, la Ctr ha ritenuto che, nel caso specifico, non fosse applicabile il principio di alternatività tra Iva e imposta di registro di cui all’articolo 40 del testo unico sull’imposta di registro (Dpr n. 131/1986).
In base a tale principio, le operazioni soggette a Iva scontano l’imposta di registro in misura fissa. Ciò al fine di evitare che, sulla stessa operazione, vengano versate entrambe le imposte in misura proporzionale.
La Commissione regionale ha evidenziato che, nel caso esaminato, seppure le somme in oggetto erano state assoggettate a Iva, la sentenza da registrare conteneva un provvedimento di restituzione di tali importi. Pertanto, l’imposta di registro dovuta per la registrazione della pronuncia di condanna non era finalizzata a colpire l’operazione commerciale precedentemente eseguita dalle parti, ma si riferiva all’obbligo di restituzione delle somme, secondo quanto stabilito dalla Corte d’appello.
La sentenza era, in pratica, finalizzata a evitare l’indebito oggettivo previsto dall’articolo 2033 cc, in base al quale “chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato”.
La Cassazione, nel condividere quanto già affermato dai giudici tributari, ha ribadito che, nel caso di specie, non era in discussione la circostanza che l’intera vicenda processuale nasceva da un rapporto commerciale soggetto a Iva, ma doveva tenersi conto, ai fini della tassazione della decisione della Corte di appello, del fatto che questo provvedimento aveva disposto la restituzione delle somme indebitamente ricevute dalla società ricorrente a favore della controparte.
Si trattava, in pratica, di un provvedimento di condanna alla restituzione di somme che erano state corrisposte in mancanza di un titolo giustificativo. Pertanto, tali somme, come affermato dalla Corte di cassazione con la pronuncia in esame, “…non possono essere ricondotte alla nozione di pagamento di corrispettivi o prestazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto ai sensi dell’art.40 cit. di cui all’invocata nota II dell’art.8, comma 1, lett. b), cit”.
In particolare, i giudici di legittimità hanno evidenziato che il diritto di ripetere, sulla base dell’articolo 2033 del codice civile, quanto pagato indebitamente, ha come presupposto la circostanza che il pagamento sia avvenuto senza causa. Tale ripetizione ha, quindi, una funzione recuperatoria, in quanto tende a evitare un ingiusto arricchimento a danno di altri, in modo da eliminare l’iniquità prodottasi mediante uno spostamento patrimoniale privo di giustificazione.
Sulla base di ciò, in motivazione, si è affermato che “consegue da ciò che tale pagamento non può rappresentare un corrispettivo per una prestazione, ma ha appunto la funzione di reintegrare il patrimonio di colui che l’ha effettuata, in tal modo impoverendosi e nei limiti di tale impoverimento”.
È stato, quindi, escluso che l’applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale, con l’aliquota del 3% sulle somme oggetto di restituzione, possa determinare una duplicazione di tassazione o una violazione del principio di alternatività tra Iva e imposta di registro di cui all’articolo 40 del Tur.
Di conseguenza, si è ritenuta legittima la richiesta dell’ufficio finalizzata ad applicare l’imposta di registro con l’aliquota del 3% sulle somme oggetto di condanna.
In senso conforma, la Corte di cassazione si era già pronunciata con le sentenze n. 15270/2021 e n. 2040/2022, evidenziando che non sussisteva alcun vincolo sinagmallatico tra la restituzione delle somme e la prestazione eseguita ai fini commerciali.