La clausola dell'interesse moratorio non sconta un proprio Registro
Pubblicato il 20/04/24 00:00 [Doc.13245]
di Fisco Oggi - Agenzia delle Entrate


Il contratto di locazione, contenente la previsione di una condizione punitiva, nel caso di mancato adempimento, deve essere considerato come atto a tassazione unica

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La clausola penale – nel caso in esame inserita in un contratto di locazione – non è soggetta a distinta imposta di registro, in quanto sottoposta alla regola dell’imposizione della disposizione più onerosa prevista dal secondo comma dell’articolo 21, del Dpr n. 131/1986. È il principio di diritto statuito dalla Cassazione, con la sentenza n. 3466 dello scorso 7 febbraio, con la quale torna a prendere posizione sulla discussa questione del regime di tassazione, ai fini dell’imposta di registro, degli atti contenenti più disposizioni.

La vicenda processuale verteva sul recupero, da parte dell’Amministrazione finanziaria, dell’imposta di registro relativa alla clausola penale, nella specie la pattuizione di interessi moratori per il ritardo nell’adempimento, inserita all’interno di un contratto di locazione. Secondo la tesi erariale, si trattava di due negozi distinti e autonomi, con conseguente autonoma tassazione, mentre secondo la parte privata la fattispecie ricadeva nel campo di applicazione del secondo comma dell’articolo 21 del Dpr n. 131/1986, con conseguente tassazione solo della disposizione più onerosa. Di seguito la soluzione interpretativa prospettata dalla Corte di cassazione.
 
L’articolo 21 del Tur (il Testo unico sull’imposta di registro) dispone, al primo comma, che “se un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ciascuna di esse è soggetta ad imposizione come se fosse un atto distinto”, con ciò ponendo la regola generale della “tassazione separata”. Il successivo secondo comma prevede, poi, un correttivo, disponendo che “se le disposizioni contenute nell’atto derivano necessariamente, per loro intrinseca natura, le une dalle altre, l’imposta si applica come se l’atto contenesse la sola disposizione che dà luogo all’imposizione più onerosa”.
Si tratta della “tassazione unica”, un regime impositivo eccezionale e, in quanto tale, non soggetto a interpretazione estensiva, applicabile laddove la connessione tra le disposizioni contenute nell’atto portato a registrazione consista in una “oggettiva esigenza indotta dalla natura delle disposizioni” (cfr Cassazione, pronuncia n. 7154/2021), in linea con l’avverbio “necessariamente” opportunamente scelto dal legislatore in sede di formulazione del testo del secondo comma del citato articolo 21.
Ecco che, per fruire del più vantaggioso regime della tassazione unica, occorre che non si possa concepire l’esistenza di una disposizione senza prescindere dall’altra, a nulla rilevando l’esistenza di una mera connessione soggettiva, cioè per mera volontà delle parti, o occasionale tra i negozi (cfr Cassazione, pronuncia n. 1078/2004).

In tal senso, la distinzione posta ai fini dell’imposizione fiscale, dall’articolo 21 del Tur, richiama la tradizionale dottrina civilistica in tema di negozio complesso e negozi collegati, laddove il primo si contraddistingue per l’unicità della causa, mentre il secondo caso è caratterizzato da una pluralità di distinti e autonomi negozi “riannodati” in una fattispecie complessa e pluricausale. Se è pur vero, infatti, che in un caso e nell’altro vi è una pluralità di prestazioni, è solo nel contratto complesso che tali prestazioni sono riconducibili a un unico rapporto, caratterizzato da un’unica causa, mentre nel collegamento negoziale le singole prestazioni sono autonomamente inquadrabili in distinti schemi causali.

Partendo dalla netta distinzione rappresentata, la suprema Corte passa all’esame della questione di legittimità introdotta in giudizio, ovverosia se la previsione di una clausola penale all’interno di un contratto, nel caso di specie di locazione, possa ritenersi per intrinseca natura connessa al contratto e quindi non soggetta ad autonoma tassazione ai fini dell’imposta di registro in virtù del disposto del comma 2 dell’articolo 21. Data la già ribadita irrilevanza del mero elemento soggettivo, al fine di determinare la necessaria connessione tra disposizioni, per dirimere la questione l’interprete è dunque chiamato a valutare l’oggettiva natura della clausola penale prevista dall’articolo 1382 cc.

Stando al tenore letterale della disposizione codicistica e alla costante e uniforme interpretazione attribuitale dalla Cassazione nel corso degli anni (cfr Cassazione, pronunce nn. 11548/2023 e 21398/2021), la clausola penale ha lo scopo di sostenere l’esatto, reciproco e tempestivo adempimento delle obbligazioni principali, con ciò intendendosi quelle assunte con il contratto che la contiene. Nell’ambito di tale scopo, anche coerentemente all’evoluzione normativa di tale istituto – dal codice civile del 1865 a quello attuale – e alla costante giurisprudenza di legittimità, essa riveste una funzione esclusivamente civilistica (e mai sanzionatoria), cioè quella di predeterminare il risarcimento del danno da inadempimento, con esonero del contraente adempiente dall’onere della prova del danno subito a norma dell’articolo 1382 cc.

Da ciò discende, secondo i giudici supremi, che essa non possiede una causa propria e distinta rispetto a tale contratto, bensì riveste una funzione “servente” e rafforzativa, intrinseca del contratto in cui è prevista. In altre parole, la clausola penale non può sopravvivere autonomamente, rispetto al contratto, dall’adempimento delle cui obbligazioni dipende, traendo la propria fonte e radice nella medesima causa di quest’ultimo, rispetto alla quale riveste funzione ancillare. E nel genus clausola penale, per cui valgono le considerazioni sin qui dispiegate, va ricondotta a pieno titolo, sempre secondo la suprema Corte, anche la previsione di un tasso di interesse moratorio eccedente quello legale a titolo di penale per il ritardo nell’adempimento, con la conseguenza che tale disposizione pattizia resta assorbita nella tassazione della disposizione più onerosa.
 
Secondo la Corte, questa prospettiva di “derivazione necessaria non biunivoca” che si evince dalla disciplina civilistica della clausola penale, non interferisce in alcun modo rispetto al principio di giusta imposizione posto dall’articolo 53 della Costituzione, a governo anche dell’imposta di registro. Ciò non solo perché, salvo il limite dell’arbitrio e della irragionevolezza, il legislatore è libero, come più volte ricordato dal giudice delle leggi, di individuare discrezionalmente le fattispecie impositive (e, nel caso di derivazione necessaria, ex articolo 21, secondo comma, del Dpr n. 131/1986, esso mostra appunto di volersi limitare al prelievo più gravoso, rinunciando agli altri), ma anche perché la clausola penale – sia per la sua natura risarcitoria e dunque meramente reintegrativa di un patrimonio diminuito dall’inadempimento, sia per il suo tipico effetto di esonero probatorio – non esprime di per sé alcuna ricchezza significativa di forza economica e capacità contributiva (o, quantomeno, non più di quelle espresse per il caso di regolare adempimento del contratto).

In conclusione, la pronuncia in esame offre un ulteriore utilissimo strumento interpretativo per applicare, all’atto contenente più disposizioni sottoposto a registrazione, la tassazione più coerente al suo contenuto e all’intenzione del legislatore.

 


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