Integra il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (ex articolo 3, Dlgs n. 74/2000) la condotta di chi acquista, consapevolmente, un credito d’imposta inesistente e, successivamente, lo indica in dichiarazione dei redditi ad abbattimento dell’imposta dovuta. È quanto precisato dalla Corte di cassazione, con la sentenza n. 8653 del 28 febbraio 2024.
La terza sezione penale della suprema Corte, innanzitutto, ha evidenziato che il decreto legislativo n. 74/2000, recante la disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, con una norma ad hoc, disciplina il reato di indebita compensazione.
Nel dettaglio, l’articolo 10-quater, del citato decreto legislativo, prevede che “1. è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro.
2. è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro”.
Nel caso in esame, invece, il più grave reato contestato all’imputato è la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, di cui all’articolo 3 dello stesso decreto legislativo.
Ai sensi dell’articolo 3, comma 1, è punito “chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi, quando, congiuntamente: a) l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro trentamila; b) l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al cinque per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, è superiore a euro un milione cinquecentomila, ovvero qualora l'ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell'imposta, è superiore al cinque per cento dell'ammontare dell'imposta medesima o comunque a euro trentamila”.
È il caso di sottolineare, che l'elemento soggettivo del reato ex articolo 10-quater del Dlgs n. 74/2000 è il dolo generico; in particolare, si è affermato, sotto il profilo soggettivo, che l'inesistenza del credito costituisce di per sé, salvo prova contraria, un indice rivelatore della coscienza e volontà del contribuente di bilanciare i propri debiti verso l’Erario con una posta creditoria artificiosamente creata, ingannando il fisco, mentre, nel caso in cui vengano dedotti crediti non spettanti, sebbene certi nella loro esistenza e ammontare, occorre provare la consapevolezza, da parte del contribuente, che il credito non sia utilizzabile in sede compensativa (cfr Cassazione, pronuncia n. 5934/2019).
Diversamente, l’articolo 3 integra un reato a dolo specifico. È, pertanto, necessaria la prova della sussistenza, in capo all’autore, del dolo specifico di evasione, quale intenzione deliberata ed esclusiva di sottrarsi al pagamento delle imposte.
La decisione
La questione affrontata dalla sentenza in commento muove dal ricorso per cassazione proposto dall’imputato avverso la sentenza di condanna per il reato di cui all’articolo 3, primo comma, del Dlgs n. 74/2000, a lui ascritto, per avere, quale rappresentante legale di una società a responsabilità limitata, con finalità di evasione, indicato nella dichiarazione fiscale della società crediti d’imposta inesistenti ceduti da altra società.
Nel dettaglio, la fattispecie riguardava una società che aveva indicato, in dichiarazione, crediti d’imposta relativi a investimenti in aree economiche svantaggiate, del valore nominale di 1 milione e 600mila euro, acquistati da un’altra società per 240mila euro e accertati come inesistenti.
Tra i motivi del ricorso l’imputato adduceva l’assenza del dolo specifico, richiesto per integrare il reato in argomento, valorizzando l’onerosità dell’acquisto del credito, dietro un corrispettivo di 240mila euro; la tempestiva denuncia per truffa del cessionario e l’utilizzo di professionisti e consulenti qualificati per la conclusione dell’operazione.
La Corte di cassazione ha confermato la condanna del rappresentante legale, evidenziando la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del reato contestato.
Preliminarmente, appare dimostrata la radicale inesistenza dei crediti d’imposta ceduti, desumibile: i) dall’assenza di potere rappresentativo della società cedente in capo al soggetto che ha stipulato la cessione; ii) dalla veste di evasore totale anche della società cedente; iii) dalla mancata osservanza delle formalità necessarie per ottenere il beneficio fiscale ceduto alla società amministrata dal ricorrente; iv) dalla assenza del necessario nulla osta alla cessione da parte della Agenzia delle entrate.
Successivamente, la Corte ritiene dimostrata la sussistenza dell’elemento soggettivo e la finalità di evasione.
La piena consapevolezza dell’inesistenza dei crediti è ritenuta desumibile dalle caratteristiche della società cedente, (sconosciuta al fisco, che non aveva mai presentato alcuna dichiarazione fiscale, né depositato alcun bilancio, e non aveva ottenuto alcun nulla osta alla cessione) oltre che dalla sproporzione del corrispettivo di tali cessioni (pari a 240mila euro, a fronte del valore dei crediti ceduti, pari a 1.625.065 euro).
La finalità di evasione, che ha caratterizzato la condotta dell'imputato è rilevata, considerato che l’acquisto del credito, per un valore nettamente superiore al costo, è strumentale al conseguimento di un risparmio di imposta che, nel corso degli anni, sarebbe stato sicuramente superiore all'esborso effettuato e che, per conseguire tale obiettivo, il ricorrente necessitava di un supporto documentale (gli atti di cessione dei crediti inesistenti) apparentemente regolare e (almeno auspicabilmente, secondo una valutazione ex ante effettuata al momento della condotta fraudolenta) utilizzabile a fini fraudolenti.
In conclusione, sebbene in presenza di crediti ritenuti inesistenti sia configurabile il reato di indebita compensazione, con soglia di utilizzo annuo a 50mila euro (articolo 10-quater), sulla base dei chiarimenti della Corte, l’esposizione consapevole in dichiarazione di un credito inesistente configura il più grave reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, che si manifesta al superamento della più esigua soglia di 30mila euro di imposta evasa e del 5% degli elementi attivi indicati in dichiarazione ed è punita con la pena di reclusione da tre a otto anni.