In tema di accertamento delle imposte sui redditi, e nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati. È quanto ha stabilito la Suprema Corte, con l’ordinanza n. 26032 del 4 ottobre 2024, respingendo un ricorso proposto dal contribuente ed accogliendo le tesi avanzate dall’Amministrazione finanziaria.
In merito, i giudici di piazza Cavour hanno precisato, inoltre, che, fermo il principio enunciato, rimane salva la facoltà per il contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, ma siano stati invece accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti. A tal fine, però, non è sufficiente la mera e semplice deduzione che l'esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili.
Il caso di specie, la decisione dei giudici di merito e il ricorso in Cassazione
L’Agenzia delle entrate eseguiva un’attività accertativa nei confronti di un contribuente socio al 50% di una società a ristretta compagine sociale. Ricordiamo, in proposito, che si possono definire società a ristretta base sociale quelle società di capitali in cui la compagine societaria è costituita da un numero limitato di soci, quasi sempre legati tra loro da un vincolo di parentela e/o affinità.
Ebbene, al contribuente l’Amministrazione finanziaria notificava apposito avviso di accertamento mediante il quale riprendeva a tassazione i maggiori redditi accertati in capo alla società e attribuiti al contribuente medesimo in proporzione alla sua quota di partecipazione al capitale sociale. Avverso tale determinazione dell’Ufficio, il socio ricorreva dinanzi la competente Corte di giustizia tributaria di primo grado che, dandogli ragione, annullava l’atto accertativo del fisco.
Di diverso avviso erano però i giudici di merito di secondo grado che, ribaltando la pronuncia di prime cure, riconoscevano il corretto operato dell’ufficio accertatore. Avverso tale ultima sentenza ricorreva, dunque, per Cassazione il contribuente, affidandosi a due mezzi di ricorso, cui replicava l’Agenzia con apposito controricorso. In particolare, il socio della società a ristretta compagine sociale lamenta violazione e falsa applicazione degli articoli 2727, 2729 e 2697 del Codice civile, nonché dell'articolo 38 del Dpr600/1973, criticando, nello specifico, la presunzione, applicata dal fisco nel suo atto di accertamento, di ripartizione fra i soci dei maggiori utili accertati in capo alla società.
Gli articoli 2727, 2729, 2697 codice civile e l’articolo 38 del Dpr 600/1973
Con disposizioni di carattere generale, gli articoli 2727 e 2729 del Codice civile, stabiliscono, rispettivamente, che le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato e che le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti.
Il successivo articolo 2697, rubricato onere della prova, dispone, invece, che chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento mentre chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda.
Proseguendo, il Dpr 600/1973 concernente disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi, all’ articolo38 si occupa della rettifica delle dichiarazioni delle persone fisiche prevedendo che l'ufficio delle imposte procede alla rettifica delle dichiarazioni presentate dalle persone fisiche quando il reddito complessivo dichiarato risulta inferiore a quello effettivo o non sussistono o non spettano, in tutto o in parte, le deduzioni dal reddito o le detrazioni di imposta indicate nella dichiarazione (primo comma). Inoltre, ai sensi del secondo comma del medesimo articolo, l’incompletezza, la falsità e l'inesattezza dei dati indicati nella dichiarazione, possono essere desunte dalla dichiarazione stessa, dal confronto con le dichiarazioni relative ad anni precedenti e dai dati e dalle notizie di cui l’ufficio viene a conoscenza, anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti.
L'ufficio (commi 3 e 4), indipendentemente dalle disposizioni ora viste, può poi sempre determinare sinteticamente il reddito complessivo del contribuente sulla base delle spese di qualsiasi genere sostenute nel corso del periodo d'imposta e la determinazione sintetica può essere altresì fondata sul contenuto induttivo di elementi indicativi di capacità contributiva.
Di fronte, però, ad una determinazione sintetica il contribuente può sempre dimostrare che:
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il finanziamento delle spese è avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo di imposta, o con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte o, comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile ovvero da parte di soggetti diversi dal contribuente
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le spese attribuite hanno un diverso ammontare
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la quota di risparmio utilizzata per consumi ed investimenti si è formata nel corso degli anni precedenti.
Infine, la norma prevede che l’ufficio che procede alla determinazione sintetica del reddito complessivo ha l'obbligo di invitare il contribuente a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell'accertamento e, successivamente, di avviare il procedimento di accertamento con adesione ai sensi dell'articolo 5 del Dlgs 218/1997
La decisione della Corte
Chiamati a pronunciarsi definitivamente sulla questione, i magistrati di piazza Cavour hanno avallato le tesi dell’Amministrazione finanziaria, confermando la decisione dei giudici tributari di secondo grado e respingendo il ricorso proposto dal contribuente.
I giudici di legittimità hanno, infatti, chiarito, che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà per il contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, ma siano stati invece accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti. Tale prova, però, hanno sottolineato i magistrati romani, deve essere rigorosa ed il contribuente socio deve provare incontrovertibilmente che i maggiori ricavi accertati dal fisco non sono stati oggetto di distribuzione tra i soci stessi, non essendo a tal fine sufficiente la mera deduzione che l'esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili.
Detto assunto era già stato, tra l’altro, espresso dalla stessa Corte di ultima istanza nelle recenti pronunce Cassazione 24820/21, 27049/2019 e 30069/2018, nelle quali era stato evidenziato che ad escludere che lo schermo della personalità giuridica fosse idoneo a neutralizzare la presunzione dell'imputazione degli utili extra bilancio ai soci di società di capitali a ristretta base sociale opera il principio generale del divieto dell'abuso del diritto.
In ultimo, i giudici di Cassazione hanno evidenziato come “la presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati non viola il divieto di presunzione di secondo grado poiché il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale”.
Per tutto quanto ora visto, definitivamente pronunciandosi sulla questione, la Suprema corte ha confermato la decisione dei giudici di merito di secondo grado, respingendo il ricorso del socio contribuente e condannandolo, altresì, al pagamento delle spese di giudizio.