Condanna penale per il prestanome anche se delinque sotto minaccia
Pubblicato il 25/11/16 08:45 [Doc.2052]
di Redazione IL CASO.it


Non è di marginale rilevanza la condotta dell’imputato, che ha rilasciato fatture per operazioni che sapeva essere inesistenti e false attestazioni liberatorie di ricevuti pagamenti

Risponde del reato di “emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, previsto dall’articolo 8 del Dlgs 74/2000 colui che, essendo mero amministratore di diritto della società, adotta una condotta delittuosa sotto costrizione dell’amministratore di fatto. La durata, per nulla breve, del periodo di esercizio delle funzioni di amministrazione e la mancata denuncia, nell’arco di tale periodo, dell’attività illecita dell’effettivo gestore escludono, infatti, l’operatività della attenuante dello stato di necessità, di cui all’articolo 54 del codice penale.
Questo, in sintesi, il principio affermato dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 47972 del 14 novembre 2016.

I fatti
La pronuncia in commento è stata emessa nell’ambito del procedimento penale instaurato nei confronti dell’amministratore di diritto di una società di capitali, ritenuto responsabile in entrambi i gradi di merito del reato di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
In particolare, la Corte territoriale aveva disatteso l’assunto di parte, essenzialmente incentrato sulla non addebitabilità, sia sotto il profilo oggettivo che sotto il profilo soggettivo, delle condotte penalmente rilevanti, in quanto commesse dal prestanome sotto costante minaccia di licenziamento da parte del vero “dominus” della società, escludendo che le minacce subite siano state tali da determinare in maniera assolutamente cogente il comportamento dell’imputato.

Questi ricorreva in Cassazione, deducendo:
violazione di legge e mancanza o illogicità della motivazione, con riguardo alla non corretta valutazione da parte dei giudici del gravame della situazione di minaccia e vessazione cui l’imputato era stato assoggettato da parte dell’amministratore di fatto, tale da escludere qualsiasi responsabilità in capo allo stesso, mero prestanome privo della benché minima autonomia decisionale e costretto a sottoscrivere le false fatture dietro costante minaccia di licenziamento
violazione di legge e mancanza o illogicità della motivazione, in relazione alla mancata concessione della circostanza attenuante del contributo concorsuale di minima importanza prevista dall’articolo 114 del codice penale.

La pronuncia della Corte
La Suprema corte, investita della questione, ritiene infondati entrambi i motivi di ricorso.
Quanto al primo, invero, i giudici di legittimità, chiarita l’incontrovertibilità del fatto che le fatture siano state materialmente sottoscritte dall’imputato – il quale, dunque, sotto questo profilo ha in ogni caso esercitato anche concretamente le funzioni di amministrazione della società (sì che ogni questione circa una pretesa mancanza di responsabilità per essere la carica meramente formale sarebbe comunque mal posta) – ricordano che “in tema di stato di necessità ex art. 54 c.p., l’imputato ha un onere di allegazione avente per oggetto tutti gli estremi della causa di esenzione, sicché egli deve allegare di aver agito per insuperabile stato di costrizione, avendo subito la minaccia di un male imminente non altrimenti evitabile e di non aver potuto sottrarsi, nemmeno putativamente, al pericolo minacciato…”, con la conseguenza che “il difetto di tale allegazione esclude l’operatività dell’esimente” (cfr Cassazione, n. 45065/2014).

Alla luce di tale principio, la sentenza impugnata, che ha ritenuto sostanzialmente non assolto un tale onere di allegazione, appare non solo immune dal vizio di illogicità, ma anche corretta e in linea con l’orientamento più volte espresso dalla giurisprudenza di legittimità.
Invero, la Corte territoriale ha tratto il proprio convincimento da due elementi, dalla stessa evidenziati nella propria motivazione: da un lato, la durata per nulla breve (protrattasi per circa due anni) del periodo di esercizio, da parte dell’imputato, delle funzioni di amministrazione; dall’altro, la mancanza, per tale intero periodo, di condotte del ricorrente volte a denunciare l’amministratore di fatto o a trovare un’altra attività.
Tali circostanze fondatamente escludono “l’idoneità delle minacce ricevute a determinare in termini assolutamente cogenti il comportamento di emissione” materialmente realizzate dal prestanome e comportano la riferibilità a quest’ultimo della condotta penalmente illecita.

Anche il secondo motivo di ricorso viene rigettato dalla suprema Corte perché infondato. Invero, secondo un costante orientamento, la circostanza attenuante del contributo concorsuale di minima importanza trova applicazione laddove l’apporto del correo risulti così lieve da apparire, nell’ambito della relazione di causalità, quasi trascurabile e del tutto marginale (cfr Cassazione, n. 34985/2015).

Tanto premesso, la sentenza impugnata ha correttamente applicato il principio di cui sopra, dal momento che la condotta dell’imputato, che ha rilasciato le fatture per operazioni che ben sapeva essere inesistenti e che, per di più, ha rilasciato false attestazioni liberatorie di ricevuti pagamenti, non può in alcun modo ritenersi di marginale rilevanza.

Osservazioni
La sentenza in commento si pone in continuità con l’orientamento rigoroso, da tempo affermatosi, della Corte di cassazione in tema di responsabilità penale dell’amministratore “formale” o prestanome.
Sul punto, si osservi come già nella sentenza n. 47110/2013 la Corte (che richiama, peraltro, un proprio precedente del 2011) riconosca che il principio dell’equiparazione degli amministratori di fatto a quelli formalmente investiti, recepito dal legislatore in occasione della riforma del diritto societario del 2003, sia stato affermato sia nella materia civile che in quella penale e tributaria. La stessa sentenza ammette, poi, che detto principio si riscontra anche in materia di sanzioni amministrative tributarie, atteso che l’articolo 11 del Dlgs 472/1997 parifica il legale rappresentante all’amministratore di fatto, sancendo formalmente la diretta responsabilità anche di quest’ultimo.

Come confermato dalla richiamata sentenza della suprema Corte n. 47110/2013, una tale equiparazione va, evidentemente, letta in un’ottica bi-direzionale.
Se infatti, da un lato, si è chiarito che il vero soggetto qualificato non è il prestanome ma colui il quale effettivamente gestisce la società, dall’altro si è precisato che anche al prestanome può essere imputata una corresponsabilità in virtù della posizione di garanzia di cui all’articolo 2392 cc, in forza della quale l’amministratore deve conservare il patrimonio sociale e impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi.

Mariasole Ivaldi
pubblicato Giovedì 24 Novembre 2016
(www.fiscooggi.it)


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