I familiari dell’imprenditore non sono soci bensì creditori
Pubblicato il 02/04/17 07:45 [Doc.2809]
di Redazione IL CASO.it


Le somme corrisposte ai collaboratori congiunti non rilevano come componenti negativi e non sono deducibili dal reddito d’impresa, non ricorrendo il requisito dell’inerenza
In tema di imposte sui redditi di impresa, l’esborso che il titolare dell’impresa familiare effettua in favore del familiare a titolo di liquidazione per la cessazione del rapporto partecipativo non è deducibile dal reddito d’impresa, non trattandosi di un costo da cui derivi un pur potenziale ricavo.
È quanto stabilito dalla Corte di cassazione, con la sentenza n. 6721 del 15 marzo 2017.

Vicenda processuale
Il titolare di una farmacia, in regime di impresa familiare, chiedeva l’annullamento di un avviso di accertamento per un recupero d’imposta effettuato dall’Agenzia delle Entrate che contestava, ritenendo insussistenti i requisiti di inerenza e competenza, la deducibilità di alcuni costi, tra i quali, le somme corrisposte a due familiari collaboratori a titolo di indennità ex articolo 230-bis del codice civile.

I giudici di prime cure affermavano che la ripresa a tassazione delle indennità corrisposte ai collaboratori familiari era indebita “atteso che la somma costituisce indubbiamente un costo deducibile”.

Avverso la citata pronuncia, per errata qualificazione tributaria delle indennità corrisposte dal titolare dell’impresa familiare ex articolo 230-bis del codice civile, proponeva appello l’ufficio.
Il gravame veniva deciso, con sentenza sfavorevole all’Agenzia, dalla Ctr della Puglia che, confermando l’orientamento manifestato dalla Ctp, con riferimento alle indennità corrisposte ai collaboratori dell’impresa familiare, affermava che “… l’art. 230 bis prevede che i familiari che partecipano alla gestione dell’impresa familiare al momento del suo scioglimento percepiscono una somma a titolo di liquidazione, rapportata all’incremento dell’impresa durante il periodo in cui i detti familiari ne hanno fatto parte. È di tutta evidenza che trattasi di un riconoscimento del lavoro che i familiari hanno prestato nell’impresa, una sorta di TFR, o di retribuzione differita, rapportata al lavoro che hanno prestato all’interno dell’impresa familiare. Le argomentazioni dell’Ufficio che trattasi invece di un diritto di credito che graverebbe sul patrimonio dell’azienda non sono condivisibili (…)”.

L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, per violazione e falsa applicazione degli articoli 5 comma 4, 101 comma 4 e 109 commi 1 e 5, del Tuir, per aver il giudice d’appello ritenuto deducibile dal reddito d’impresa l’indennità di cessata collaborazione.
Nello specifico, facendo leva sulla natura individuale dell’impresa familiare e sul carattere interno dell’imputazione reddituale pro quota, l’ufficio negava l’inerenza delle competenze di liquidazione del familiare partecipe all’impresa. Per contro, il contribuente adduceva che l’indennità di cessazione della prestazione di lavoro nell’impresa familiare deve qualificarsi come costo deducibile dal reddito d’impresa, anche per evitare una doppia tassazione.

Decisione della Corte suprema
La Corte di cassazione, con la sentenza 6721/2017, ha preliminarmente chiarito che “il diritto dei familiari alla liquidazione della partecipazione è soltanto un diritto di credito rapportato a una quota di beni, utili ed incrementi”.
Ha poi affermato che questo credito interno al rapporto personale – di natura familiare – “non è deducibile dal reddito d’impresa, giacché difetta il requisito dell’inerenza, non trattandosi di un costo da cui derivi un potenziale ricavo”.
Ha escluso, infine, qualsiasi rischio di doppia imposizione, in quanto “la liquidazione corrisposta al familiare – indeducibile – non è tassabile ai sensi dell’art. 5, comma 4, del TUIR, concernendo, quest’ultimo, la diversa fattispecie dei «redditi delle imprese familiari»”.

Osservazioni
In giurisprudenza è consolidato il principio secondo cui l’impresa familiare ha natura individuale; l’imprenditore, dunque, è il titolare dell’impresa, assumendo in proprio i diritti e le obbligazioni che derivano dall’esercizio dell’attività.
Ai fini fiscali, con l’articolo 5, comma 4, del Tuir, il legislatore ha stabilito che i redditi delle imprese familiari di cui all’articolo 230-bis del codice civile, limitatamente al 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili.
L’attribuzione dell’utile al familiare ha solo una rilevanza interna, afferente ai rapporti tra l’imprenditore e i suoi familiari.

I familiari partecipanti all’impresa non sono soci ma creditori, i cui diritti gravano sul patrimonio dell’azienda alle condizioni e nei limiti indicati dal richiamato articolo 5, comma 4.
Il reddito dell’impresa familiare è dichiarato nel suo ammontare complessivo dal titolare, il quale imputa, per convenzione, una quota ai familiari che collaborano nell’impresa medesima.
Le somme corrisposte ai collaboratori non rilevano come componenti negativi e non sono deducibili dal reddito d’impresa, non ricorrendo il requisito dell’inerenza previsto dall’articolo 109, comma 5, del Tuir.
Allo stesso modo le indennità corrisposte ai familiari per la cessazione della collaborazione non hanno alcuna natura reddituale.

L’Amministrazione finanziaria è pervenuta alle medesime conclusioni della Corte suprema con la risoluzione 137/2008. Nel documento di prassi, partendo dal presupposto che le somme corrisposte dall’imprenditore non sono collegabili all’esercizio della sua attività, in quanto dirette a soddisfare esigenze estranee alle finalità e alla logica d’impresa, ha poi chiarito che “la liquidazione al coniuge del diritto di partecipazione all’impresa familiare afferisce alla sfera personale dei soggetti del rapporto in questione” e, pertanto, non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali previste dal Tuir.
L’importo attribuito non va pertanto assoggettato a Irpef in capo al soggetto percipiente e, come ulteriore conseguenza, ne discende che la somma in questione non rileva come componente negativo e non è deducibile dal reddito d’impresa, non ricorrendo il requisito dell’inerenza previsto dall’articolo 109, comma 5 del Tuir.
Nunziata Masiello
pubblicato Lunedì 27 Marzo 2017
FiscoOggi


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