La cessione contestuale di quote rappresenta una cessione dâazienda
Pubblicato il 05/06/17 08:22 [Doc.3160]
di Redazione IL CASO.it
Al vaglio della Corte suprema, il trasferimento contemporaneo da parte di due soci, a un medesimo soggetto, delle partecipazioni rappresentanti lâintera compagine sociale
La quinta sezione della Corte di cassazione, con la sentenza n. 11877 del 12 maggio 2017, è tornata a pronunciarsi sulla vexata quaestio della natura e dellâambito applicativo della disposizione recata dallâarticolo 20 del Testo unico in materia di imposta di registro, effettuando unâampia ricognizione degli orientamenti espressi dalla giurisprudenza di legittimità sul tema e delineandone la differenza rispetto alla figura dellâabuso del diritto nonché della simulazione.
Nella specie, la sentenza in commento ha esaminato una ipotesi di cessione contestuale da parte di due soci â a un medesimo soggetto â delle quote rappresentanti lâintera compagine sociale, riqualificata quale cessione dellâazienda.
I fatti di causa
Nel novembre 2008, due soci â rappresentanti lâintera compagine sociale della società Alfa â cedevano con negozi contestuali le rispettive quote di partecipazione nella Alfa ad altra società Beta al valore nominale; gli atti venivano assoggettati a imposta di registro in misura fissa in applicazione del disposto dellâarticolo 11 della Tariffa, parte I, allegata al Dpr 131/1986.
Il contenzioso trae origine dallâimpugnazione dellâatto impositivo con il quale lâufficio ha recuperato â in applicazione dellâarticolo 20 del medesimo Dpr 131 â lâimposta di registro proporzionale in relazione alla cessione di quote sociali, ritenendo i negozi contestualmente posti in essere dai soci della Alfa espressione di un fenomeno giuridico unitario, tendente ad attuare lâeffetto della cessione del compendio aziendale alla società Beta.
Con il medesimo atto, lâufficio ha anche rideterminato il valore del complesso ceduto.
Le conclusioni dei giudici di merito
La Ctp di Pavia ha accolto il ricorso limitatamente alle sanzioni, ritenendo la violazione determinata da obiettive condizioni di incertezza, mentre ha ritenuto legittimo il recupero operato dallâufficio poiché â dovendosi dare rilievo preminente alla causa reale e alla regolazione degli interessi perseguiti â la parte ânon è stata in grado di dimostrare che il reale intento ricercato con il negozio giuridico fosse differente dalla cessione dâaziendaâ.
La decisione è stata riformata dalla Ctr di Milano, la quale, in accoglimento dellâappello dei contribuenti, con sentenza del 27 settembre 2012, ha annullato lâatto impositivo con la motivazione che âla parte non ha messo in atto unâoperazione elusiva, ma solo la vendita di quote socialiâ, mentre lâimprenditore deve essere autonomo nelle proprie selezioni economiche âsenza elementi di criticità e di censura o di stravolgimento totale che, purtroppo, portano ad interpretare in modo diverso, e quindi sbagliato, il negozio giuridico compiuto dallo stessoâ.
Nel caso di specie, infatti, secondo la Ctr ânon si è in presenza di elusione dâimposta, così come sostenuto dallâufficio, in quanto parte ricorrente non ha raggirato norme fiscali, pertanto le complessive imposte da versare devono essere la diretta conseguenza della lettura dellâatto stessoâ, anche alla luce della natura dellâimposta di registro come imposta dâatto.
La posizione della Corte di cassazione
A seguito di impugnazione dellâAmministrazione finanziaria, con la sentenza 11877/2017, la Corte suprema è giunta a cassare la sentenza della Ctr di Milano[1], operando unâampia ricostruzione degli orientamenti espressi sulla natura e sullâambito applicativo della disposizione recata dallâarticolo 20 del Dpr 131/1986, ai sensi del quale âLâimposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparenteâ.
Si tratta di questioni che la giurisprudenza si è trovata più volte ad affrontare, su cui si registra sovente una diversità tra le posizioni espresse dai giudici del merito e quelle espresse dalla Corte di cassazione.
Nella sentenza in commento, la V sezione evidenzia, in primo luogo, che il giudice di merito non ha colto il profilo giuridico rilevante nella causa âgiacché esso non è attinente a una supposta elusione dellâistituto contrattuale che regola la circolazione della proprietà dellâazienda, ma dellâimpostaâ, laddove, invece, la Ctr ha ritenuto priva di logica dimostrazione la definizione dellâoperazione â ai fini dellâimposta di registro â come elusiva dellâistituto contrattuale del trasferimento dâazienda.
Ciò premesso, la Corte suprema ha ribadito che costituisce orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità quello che esclude che lâarticolo 20 del Dpr 131/1986 sia norma âpredisposta al recupero di imposte «eluse»â, poiché lâabuso del diritto âpresuppone una mancanza di «causa economica» che non è viceversa prevista per lâapplicazione dellâart. 20 citato, disposizione la quale semplicemente impone, ai fini della determinazione dellâimposta di registro, di qualificare lâatto o il collegamento di più atti in ragione del loro intrinseca portata, cioè in ragione degli effetti oggettivamente raggiunti dal negozio o dal collegamento negoziale come può appunto avvenire con la cessione delle quote della società , atti che se funzionalmente e cronologicamente «collegati» potrebbero essere senzâaltro idonei a realizzare «oggettivamente» gli effetti della vendita e cioè il trasferimento di cose dietro corrispettivo del pagamento del prezzo (Cass. n. 3562/2017)â[2].
Secondo il collegio giudicante, la fattispecie regolata dallâarticolo 20 citato, inoltre, ânemmeno ha a che fare con lâistituto della simulazione, atteso che la riqualificazione in parola avviene anche se le parti hanno realmente voluto quel negozio o quel dato collegamento negoziale, e ciò perché quel che conta sono gli effetti oggettivamente prodottisi (ex multis, Cass. n. 9582/2016; n. 10211/2016; n. 9573/2016; n. 18454/2016; n. 2050/2017)â[3].
Lâarticolo 20 del Tur, invero, deve essere letto nel senso che occorre dare prevalenza alla natura intrinseca degli atti registrati e dei loro effetti giuridici rispetto al titolo e alla loro forma apparente; in particolare, lâinterprete è vincolato a privilegiare, nellâindividuazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma e, quindi, il dato giuridico reale conseguente alla natura intrinseca degli atti e ai loro effetti giuridici ârispetto a ciò che formalmente è enunciato, anche frazionatamente, in uno o più atti, con la conseguenza di dover riferire lâimposizione al risultato di un comportamento nella sostanza unitario, rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali, atomisticamente considerati (Cass. n. 10216/2016; n. 1955/2015; n. 14150/2013; n. 6835/2013)â[4].
Tale lettura, secondo la Corte suprema, è frutto della evoluzione normativa che ha caratterizzato la prestazione patrimoniale tributaria di registro da regime di tassa âavente come oggetto lâatto inteso nella sua forma documentale, e come contenuto una determinata quantità di denaro da riscuotere in corrispettivo del servizio di registrazioneâ, a quello dellâimposta âavente come oggetto la manifestazione di capacità contributiva correlabile a una ben dimostrata forza economicaâ.
Pertanto, anche se lâoggetto dellâimposta di registro âper quanto genericamente e formalmente individuata nel riferimento dellâart. 1, agli atti soggetti a registrazione o volontariamente presentati per la registrazione, nella sostanza, è costituito dagli effetti giuridici di tali atti, ma l'imposta si collega all'atto come negozio e non all'atto come documento (Cass. n. 3481/2014)â, non ostando a tale conclusione la diversità dei criteri interpretativi utilizzabili ai fini tributari, rispetto a quelli civilistici[5].
In tale quadro, la Corte di cassazione giunge, quindi, a ritenere priva di rilievo la ricerca delle ragioni economiche giustificatrici dellâoperazione in quanto, una volta riconosciuto, alla luce dei principi innanzi enunciati, che ci si trova di fronte a un caso di cessione dâazienda (o di ramo dâazienda), non è richiesta alcuna valutazione sullâesistenza o meno di tali ragioni.
Per le motivazioni illustrate, la V sezione, da ultimo, fa espresso richiamo alla precedente pronuncia 2054/2017, di diverso tenore[6], ritenendo di disattenderla in quanto propone una lettura dellâarticolo 20, più volte richiamato, che âmal si concilia con il principio costituzionale della capacità contributiva ed ignora la ricordata evoluzione della prestazione patrimoniale tributaria dal regime della tassa a quello dellâimpostaâ[7].
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Letizia Berti
pubblicato Mercoledì 31 Maggio 2017
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