Trust americano, beneficiario italiano, a battere cassa è il fisco nostrano
Pubblicato il 30/10/17 00:00 [Doc.3862]
di Redazione IL CASO.it


Costituito dalla sorella, cittadina americana, a tutela del patrimonio del disponente, per evitare che terze persone possano approfittare del suo disinteresse per i propri beni

Ai sensi del combinato disposto degli articoli 73, comma 2, e 44, comma 1, lettera g-sexies, del Tuir, in quanto beneficiario individuato, deve essere imputato al contribuente residente in Italia il reddito prodotto da un trust collocato nello stato di New York che ivi non paga imposte.
Inoltre, ha errato il primo giudice a ritenere applicabile al reddito percepito dal contribuente, in quanto beneficiario individuato dal trust agreement, la convenzione tra il governo della Repubblica italiana e il governo degli Stati Uniti d’America del 1984, ratificata dalla legge 763/1985 e vigente ratione temporis, in assenza di una doppia tassazione sullo stesso reddito.
Con questa massima – contenuta nella sentenza n. 104/2017 – la Commissione tributaria di secondo grado di Trento ha motivato l’accoglimento dell’appello dell’Agenzia delle entrate e rigettato l’appello incidentale di parte privata, pronunciandosi così definitivamente su una vicenda originale sotto diversi profili.

I fatti di causa
Dalla narrazione dei fatti di causa si evince che il contribuente era una persona affetta da fragilità mentale sin dalla giovane età, residente in Italia in una casa di riposo.
L’unico parente prossimo, sua sorella, risiedeva invece da tempo negli Stati Uniti, per cui il patrimonio ereditato dai genitori venne conferito nel “C.M. trust”, con sede a New York, di cui la nominata sorella era fiduciaria e amministratore.
Il trust fu costituito a tutela del patrimonio del disponente e per evitare che terzi potessero approfittare del disinteresse che egli aveva sempre dimostrato per i propri beni.

Conformemente a tale impostazione, il contratto istitutivo del trust prevedeva che il “beneficiario di ‘tutti i redditi netti’ derivanti dalla gestione del trust, ‘o di una parte di essi’, fosse lo stesso disponente ma che sua sorella avrebbe potuto beneficiare del patrimonio residuo e delle rendite non distribuite solo dopo la morte del fratello. Inoltre, spettava alla sorella – in quanto amministratore o trustee – decidere periodicamente quanta parte della rendita (ma anche, eventualmente, quanta parte del capitale) versare a favore del fratello, in base alle esigenze”.

Su questo scenario di riferimento si innesca il controllo, eseguito nella preliminare fase istruttoria dall’Agenzia delle entrate su segnalazione dell’autorità fiscale statunitense presso cui risultava che nel 2007 il “C.M. trust” non fosse tenuto a pagare imposte, in quanto dalla dichiarazione reddituale ivi presentata si trattava di “grantor trust”, con la specifica che tutti i redditi prodotti erano, pertanto, da imputare al soggetto disponente e beneficiario nello stato di residenza del percettore.

Contestualmente, invece, i suddetti redditi di fonte statunitense e derivanti dal trust non erano stati oggetto di dichiarazione da parte del ricorrente e, pertanto, recuperati a tassazione quali redditi di capitale, in forza del disposto di cui all’articolo 44, comma 1, lettera g-sexies, del Tuir.
La norma, infatti, qualifica, come redditi di capitale, i redditi imputati al beneficiario di trust ai sensi dell’articolo 7, comma 2, del Tuir, anche quando si tratta di un trust non residente.

Nel ricorso introduttivo, la difesa del contribuente deduceva preliminarmente un travisamento dei fatti nella misura in cui erroneamente veniva considerato il trust in questione alla stregua di un trust revocabile, posto che esso era chiaramente qualificato come irrevocabile nel contratto costitutivo.
In secondo luogo, si rilevava che il trust in questione fosse un trust “opaco” – dove il beneficiario non è individuato – e che, quindi, avrebbe dovuto essere considerato autonomo soggetto d’imposta, dovendo, altresì, differenziarsi le ipotesi di trust “opaco” da quelle di trust “trasparente” ove i beneficiari sono già individuati e soggetti passivi d’imposta, indipendentemente da una effettiva percezione.

In via subordinata, la difesa del contribuente rilevava che la tassazione degli importi contestati dall’Agenzia delle entrate dovesse rispettare, comunque, la convenzione contro le doppie imposizioni Italia/Usa e che i redditi in questione – tassati secondo la legislazione domestica – avrebbero dovuto scontare quantomeno la diversa imposta sostitutiva del 12,5% secondo la normativa vigente ratione temporis.

La Commissione tributaria di primo grado, sezione I, con sentenza n. 133 depositata il 18 maggio 2015, accoglieva parzialmente il ricorso ritenendo, sotto un primo profilo, che la pretesa irrevocabilità del trust apparisse “sostanzialmente attenuata” posto che il disponente, pur non potendo revocare la propria disposizione nei confronti del trust, avrebbe potuto però beneficiare dei frutti della buona amministrazione operata dal trustee.
Tuttavia, per altro profilo, il giudice constatava che non si era in presenza di un beneficiario specificamente individuato, per cui i redditi percepiti dal contribuente dovessero essere “assoggettati alla Convenzione tra Italia e Stati Uniti d’America del 17 aprile 1984 ... con l’aliquota del 12,5%”.

Quest’ultimo capo di sentenza veniva impugnato dall’Agenzia delle entrate poiché ritenuto non conforme a diritto in quanto la disciplina di cui alla richiamata convenzione Italia-Usa non avrebbe potuto essere applicata alla vicenda di causa poiché il “C.M. Trust” non è stato assoggettato a imposizione negli Stati Uniti, per cui, nell’ambito del rapporto convenzionale, non si determinava una doppia imposizione.
Per altro verso, l’ordinamento italiano contempla una specifica norma (articolo 44, comma 1, lettera g-sexies, del Tuir) finalizzata ad ascrivere i redditi di un trust, anche se non residente, al beneficiario residente in Italia secondo un criterio di imputazione per trasparenza.

Anche il contribuente appellava in via incidentale la sentenza, obiettando che il potere del trustee di disporre di somme in modo “arbitrario”, come rilevato dal primo giudice, sarebbe stato inconferente al fine di stabilire la revocabilità o meno del trust.
Riteneva, dunque, che nessuna tassazione potesse essere richiesta in presenza di un trust opaco.
In via subordinata, insisteva per l’applicazione della convenzione Italia/Usa, ritenendo che il contribuente andava considerato soggetto residente in entrambi gli Stati contraenti, ai fini della citata convenzione Italia/Usa, perché “assoggettato ad un’obbligazione fiscale” in America anche se quello Stato, di fatto, non applicava imposte ai grantor trust.
Ne deriverebbe che i redditi di capitale dovrebbero essere tassati nello Stato di residenza del percettore ma ai sensi degli articoli 10, 11 e 13 della convenzione Italia/Usa.

La sentenza di appello
Al fine di risolvere la controversia, i giudici di secondo grado hanno ritenuto necessario, sotto un profilo strettamente logico, inquadrare la tipologia di trust a cui ricondurre la fattispecie in esame.
Dapprima il collegio rammenta che il trust, puntualmente disciplinato dall’ordinamento civilistico italiano, è istituto non costituendo un soggetto a sé stante, ma un insieme di beni e rapporti con effetto di segregazione patrimoniale.
Per ricercare una fonte normativa, occorre richiamare l’articolo 2 della convenzione dell’Aja del l° luglio 1985, relativa alla legge applicabile ai trust e al loro riconoscimento, resa esecutiva in Italia con la legge 364/1989.
Sulla scorta dei suddetti richiami, i giudici indicano quelle che possono essere considerate le tre situazioni caratterizzanti di questo istituto atipico per l’ordinamento nazionale:
i beni in trust costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee
i beni sono intestati al trustee, o a un altro soggetto per conto del trustee
il trustee è investito del potere, e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee; il fatto che il disponente (o settlor, o grantor) conservi alcuni diritti e facoltà, o che il trustee abbia alcuni diritti in qualità di beneficiario, non è necessariamente incompatibile con l’'esistenza di un trust.

La suddetta schematizzazione è conforme a quanto sostiene la prevalente giurisprudenza di legittimità secondo cui il trust non è un soggetto giuridico dotato di una propria personalità e il trustee è l’unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi non quale legale rappresentante di un soggetto (che non esiste) ma come soggetto che dispone del diritto.
L’effetto proprio del trust validamente costituito non è dunque quello di dar vita ad un nuovo soggetto ma unicamente di “istituire un patrimonio destinato al fine prestabilito” (cfr, ex multis, Cassazione. 12718/2017).
Inoltre, i giudici di appello rilevano che solo l’ordinamento tributario contiene una disciplina specifica per i trust, introdotta con l’articolo 1 , commi da 74 a 76, della legge 296/2006 (Finanziaria 2007), che ha modificato il Dpr 917/1986.

Il legislatore ha così distinto tra:
trust con beneficiari individuati (cosiddetti trasparenti) ove i redditi conseguiti dal trust sono imputati ai beneficiari come redditi di capitale, anche se trattasi di trust non residenti, secondo le aliquote personali del beneficiario (per effetto della loro qualificazione codificata alla lettera g-sexies del comma l dell’articolo 44 del Tuir)
trust senza beneficiari individuati (cosiddetti opachi) in cui il reddito deve intendersi attribuito direttamente al trust e il cui imponibile è da calcolarsi secondo le norme relative alla tipologia di ente a cui il trust appartiene.

Inoltre, si osserva in sentenza che, data la riconosciuta duttilità dello strumento, che può dunque essere costruito in funzione delle esigenze del disponente, è ben possibile che un trust possa essere, al tempo stesso, sia trasparente che opaco. Ciò avviene quando, in base all’atto costitutivo, parte del reddito viene attribuita a individuati beneficiari e altra parte viene, invece, accantonata a capitale. In tale ipotesi solo la parte del reddito distribuita è imputata per trasparenza ai beneficiari mentre la parte accantonata è tassata in capo al trust.

Sulla scorta di questa premessa di ordine sistematico, i giudici procedono a declinare nel caso di specie i principi evocati. Dal tenore letterale del contratto fiduciario, il “C.M. Trust” veniva impostato per operare - in linea teorica – sia come trust trasparente che come trust opaco e ciò, essendo esso un trust di scopo, istituito per soddisfare le necessità del disponente/beneficiario valutate dalla trustee/sorella.
Segnatamente: il trust è “trasparente” perché individua, un unico beneficiario, lo stesso disponente, il quale percepisce “tutti i redditi netti derivanti ... dall’investimento e dal re investimento del capitale del trust ... o una parte o nessuna parte di essi” (articolo I del trust agreement); infatti, solo al decesso del disponente/beneficiario il capitale e le rendite residue spetteranno alla trustee/sorella (articolo II del trust agreement).

La “discrezionalità” riconosciuta alla trustee/sorella concerne solamente il quantum debeatur e l’individuazione della periodicità dei versamenti, fattori all’evidenza da determinare a seconda delle esigenze del disponente/beneficiario; solo “i redditi netti non versati” al signor M. “andranno ad aumentare il capitale del trust”.
Pertanto, solamente in quest’ultimo caso la parte del reddito accantonato sarà tassata in capo al trust, che opererà di conseguenza come trust “opaco”.
Pertanto, nell’anno d’imposta in esame diventa dirimente la circostanza desunta dalla dichiarazione fiscale statunitense del trust, secondo cui non sono stati sottoposti a tassazione i redditi prodotti in quanto il dichiarante si autoqualificava come “grantor type trust” per cui “ai sensi delle disposizioni del contratto di trust tutti i redditi prodotti sono imputabili al disponente”, e quindi nulla doveva versare (e ha versato) all’Erario statunitense.
Ne consegue, per l’effetto, la doverosa applicazione del combinato disposto di cui agli articoli 73, comma 2, e 44, comma 1, lettera g-sexies, del Tuir, con conseguente tassazione quale reddito di capitale in capo al beneficiario.

Come è facile osservare, la complessità delle vicende e degli istituti esaminati nella fattispecie ha richiesto un particolare sforzo di ricostruzione, dovendo aver riguardo altresì alla disciplina di due diversi ordinamenti.
Tuttavia, individuato il canone di interpretazione corretto, è stato agevole osservare per i giudici che la ricostruzione contenuta nel provvedimento impugnato fosse corretta e rispondente alle norme di legge.
In quest’ottica, accogliendo l’appello principale dell’ufficio, la Ct di appello ha pacificamente escluso la paventata doppia imposizione nella presente vicenda posto che, come si è sopra visto, nell’anno in esame i presupposti di imposta in Italia e negli Stati Uniti non si sono sovrapposti e, dunque, nessuna legge nazionale ha assoggettato per la seconda volta a imposta il medesimo reddito.

Amleto Carobello
pubblicato Venerdì 27 Ottobre 2017


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