False fatture per false operazioni: errato sottovalutare il fornitore
Pubblicato il 21/11/17 07:06 [Doc.3943]
di Redazione IL CASO.it


Le dichiarazioni di terzi rese nel corso di attività investigativa e trascritte nel pvc possono essere poste a base di un giudizio presuntivo teso a dimostrare l’evasione fiscale

Con ordinanza 25291 del 25 ottobre 2017, la Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi in tema di operazioni inesistenti, questa volta con riguardo al procedimento che il giudice deve seguire nella valutazione della prova presuntiva.
In particolare, secondo la Corte, il giudice del merito deve sempre procedere all’esame e alla valutazione di tutti gli elementi forniti in sede di accertamento, sia presi singolarmente sia nel complessivo quadro del materiale raccolto, esplicitando l’iter logico seguito e dando conto delle specifiche motivazioni per le quali essi sono stati ritenuti irrilevanti ai fini della soluzione della controversia.

I fatti all’origine del contenzioso e la vicenda processuale
Un contribuente, titolare di una ditta individuale, impugnava un avviso di accertamento contenente il recupero di Irpef, Irap e Iva, sulla base di un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza, secondo il quale le fatture annotate in contabilità, e dichiarate ai fini impositivi, erano riconducibili a operazioni oggettivamente inesistenti.

Il giudizio di primo grado si è concluso con una sentenza parziale, appellata da entrambe le parti e, in seguito, riformata dalla Commissione tributaria regionale della Campania, sezione staccata di Salerno, con sentenza 245/05/2009 del 29 giugno 2009, che ha accolto integralmente le doglianze del contribuente.
In particolare, il giudice dell’appello ha ritenuto illegittime le riprese a tassazione contenute nell’atto di accertamento sul rilievo che, in assenza di ulteriori riscontri e controlli presso l’azienda, le dichiarazioni rese da terzi (titolari delle ditte fornitrici) innanzi ai militari verbalizzanti, in ordine all’esistenza di giacenze di magazzino presso l’azienda nonché alle operazioni di trasporto della merce acquistata, non potevano assurgere a presunzioni con valore probatorio ai fini della esclusione dell’effettività dei sottostanti rapporti commerciali, rilevando solo come “meri indizi”.

L’Agenzia delle entrate, alla luce del disposto dell’articolo 360, comma 1, n. 5), cpc vigente ratione temporis, ha proposto ricorso in Cassazione avverso detta pronuncia per insufficiente motivazione, ritenendo che il giudice di secondo grado abbia omesso di valutare tutte le allegazioni dell’ufficio e le correlate risultanze documentali, da sole sufficienti a dimostrare la fondatezza dell’accertamento, non rendendosi, quindi, necessario, da parte della Guardia di finanza disporre l’ulteriore verifica della merce presente in azienda ovvero ispezioni presso la ditta di trasporto della merce indicata nelle fatture oggetto di contestazione.

Dopo plurime pronunce che hanno delineato i criteri di riparto dell’onere della prova nelle contestazioni di operazioni inesistenti, con l’ordinanza in commento la Corte di cassazione si è soffermata su un ulteriore aspetto, concernente il procedimento che il giudice deve seguire ai fini della valutazione della prova presuntiva.
Nel caso di specie, la Corte suprema ha ritenuto la decisione della Commissione tributaria regionale viziata per insufficiente motivazione evidenziando che il giudice del merito – seppure può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari considerati – deve in ogni caso darne adeguato conto nella motivazione, esplicitando l’iter logico seguito e individuando “le ragioni per le quali va esclusa la inferenza probabilistica di una serie di elementi fattuali, che pure sono desumibili dal processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza, e che erano stati evidenziati dall'Agenzia delle Entrate”.

A parere dei giudici di legittimità, dalla sentenza della Ctr non risulta che vi sia stata una puntuale disamina di tutti gli elementi disponibili, da considerare sia singolarmente, sia “nel complessivo quadro del materiale raccolto”, al fine di valutare “la possibilità o l’impossibilità di pervenire, con un grado di approssimazione ragionevole, all’accertamento dell'evasione fiscale, essendo sufficiente che il fatto ignoto da provare (evasione fiscale) sia desumibile dal fatto noto non in termini di assoluta certezza, ma come conseguenza ragionevolmente possibile o probabile, secondo regole di esperienza” (cfr Cassazione, pronunce 22656/2011, 16993/2007, 13546/2006, 128022006, 3390/2005, 16831/2003 e 15399/2002).

Più specificamente, la Ctr ha trascurato che risultava dagli atti che i rappresentanti legali delle ditte fornitrici avevano dichiarato di non aver svolto alcuna attività, di non possedere contabilità, di non aver presentato dichiarazione fiscale, di non aver mai emesso le fatture oggetto di contestazione, di non aver mai ricevuto pagamento a fronte delle stesse, di non aver consegnato la merce alla società di trasporto. Inoltre, i militari verbalizzanti avevano predisposto ulteriori riscontri con sopralluoghi presso le ditte fornitrici, dai quali era emerso che non esisteva alcuna azienda e/o attività per l’anno di riferimento, nonché interrogazioni all’Anagrafe tributaria, dalla quale in effetti non risultava presentata alcuna dichiarazione.
Il giudice del merito, di contro, ha dato rilevanza, in senso negativo, alle sole dichiarazioni di terzi, considerate “meri indizi”, incentrando la decisione sul ritenuto bisogno di ulteriori e differenti attività di controllo e verifica dei dati già acquisiti, circostanza che, a parere del giudice di legittimità, non risolve la questione della ricorrenza, rispetto agli indizi disponibili, dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza richiesti nell’ambito della prova presuntiva.

Di qui la censura della sentenza per insufficiente motivazione.
Nella medesima pronuncia, la Corte, richiamando propri precedenti, ha ribadito che le dichiarazioni rese da terzi agli organi investigativi dell’amministrazione finanziaria e trascritte nel verbale di constatazione possono essere poste a base di un giudizio presuntivo teso a dimostrare l’evasione fiscale. Nel processo tributario, infatti, anche se vige il divieto della prova testimoniale, le dichiarazioni di terzi costituiscono un principio di prova che, corroborato e integrato da altre circostanze di fatto, come nel caso esaminato, può consentire la dimostrazione dei fatti in contestazione.

Poiché, in ogni caso, “spetta al giudice di merito esaminare e giudicare – in caso di valutazione positiva degli indizi – se il contribuente abbia prodotto prove sufficienti a vincere la presunzione eventualmente scaturita da tali indizi, tenendo presente che, in tal caso, l’onere di provare l'inesistenza del fatto costitutivo della pretesa fiscale (natura fittizia delle operazioni commerciali) grava, per effetto della presunzione, sul contribuente medesimo (Cass. n. 9402/2007, n. 7421/1986)” , la Corte suprema ha rinviato la causa ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Campania.

Osservazioni
In ordine alla valutazione della sussistenza del vizio di insufficiente motivazione, è giurisprudenza costante della Corte di cassazione che il giudice debba delineare il percorso logico seguito, descrivendo il legame tra gli elementi interni determinanti che conducono necessariamente ed esclusivamente alla decisione adottata (ex multis, Cassazione, sentenze 11198/997 e 17986/2006).
In particolare, il giudice del merito deve indagare tale legame e pronunciarsi puntualmente su tutti gli elementi indicati dall’ufficio, dando conto delle specifiche motivazioni per le quali essi sono stati ritenuti irrilevanti ai fini della soluzione della controversia. È censurabile la decisione che, a fronte di plurimi elementi indicati dall’ufficio a supporto delle proprie difese, volti a dimostrare il compimento di operazioni inesistenti, si limiti ad affermare il contrario sulla base solo di alcuni di essi.

Con riferimento ai giudizi concernenti la contestazione di operazioni inesistenti, tali conclusioni della giurisprudenza di legittimità possono ritenersi attuali anche dopo la riforma operata dal Dl 83/2012, applicabile alle sentenze depositate dall’11 settembre 2012, che ha modificato il n. 5) dell’articolo 360, comma 1, del codice di procedura civile.
Il testo attuale di tale disposizione non prevede più l’impugnazione in Cassazione per vizio di motivazione, bensì per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.
Le sezioni unite della Corte suprema, con la sentenza 8053/2014, dopo aver ribadito la rilevanza della prova presuntiva nell’ambito del processo tributario, hanno concluso, infatti, che la riforma comunque “non ha sottratto al controllo di legittimità le questioni relative al «valore» e alla «operatività» delle stesse presunzioni”, con conseguente possibilità di dedurre il vizio di violazione di legge ai sensi dell’articolo 360, comma 1, n. 3), del cpc e, in particolare, dell’articolo 2729 cc, secondo cui “le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti”.
In sintesi, le sezioni unite ritengono che è possibile il sindacato per violazione di legge anche quando il giudice “abbia fondato la presunzione su indizi privi di gravità, precisione e concordanza, sussumendo, cioè, sotto la previsione dell’art. 2729 c.c., fatti privi dei caratteri legali, e incorrendo, quindi, in una falsa applicazione della norma, esattamente assunta nella enunciazione della fattispecie astratta, ma erroneamente applicata alla fattispecie concreta”.

Si richiamano, in tal senso, le sentenze 22444/2016 e 22445/2016, che riguardano proprio una ipotesi di contestazione di operazioni inesistenti, nelle quali la Cassazione ha delineato il procedimento che il giudice del merito deve seguire nella valutazione della prova fornita tramite presunzioni, il cui mancato rispetto rileva sotto il profilo della violazione di legge, ai fini dell’impugnazione in sede di legittimità.
In particolare:
“in primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria”
“successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi”.
In sintesi, il giudice tributario investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo è tenuto “a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi probatori forniti dall’ufficio, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio (impugnabile in cassazione non per il merito, ma solo per inadeguatezza o incongruità logica dei motivi che lo sorreggono)”, rendendo chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, che deve trovare puntuale rappresentazione nella motivazione della sentenza.

In relazione a operazioni inesistenti, infine, si richiama anche la sentenza 21100/2011, nella quale il Collegio di legittimità rileva la sussistenza del vizio di violazione di legge “essendosi limitati i Giudici di merito, da un lato, ad avvalorare due elementi di fatto (esistenza ‘oggettiva’ delle operazioni commerciali in relazione alla effettiva consegna della merce ed al pagamento dei corrispettivi; regolarità delle fatture emesse) da ritenersi privi, come si è detto, del requisito di concludenza di cui all’art. 2729 c.c. …, dall’altro omettendo di esplicitare le ragioni della esclusione degli altri elementi indiziari specificamente indicati nel processo verbale di constatazione”.
Letizia Berti
pubblicato Venerdì 17 Novembre 2017
fonte: www.fiscoggi.it


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