Responsabilità sanitaria: spetta al medico provare l'esatto adempimento della prestazione
Pubblicato il 26/09/18 00:00 [Doc.5183]
di Redazione IL CASO.it


Risarcimento del danno - Responsabilità professionale - Attività sanitaria - Consenso informato - Indicazione dei rischi connessi alla scorretta esecuzione dell'intervento - Necessità - Esclusione - Natura contrattuale della responsabilità - Affermazione - Onere della prova - Grava sul medico

In tema di consenso informato, il tenore dell'informazione non può spingersi a descrivere rischi improbabili o esiti infausti di per sé discendenti da una scorretta esecuzione dell'atto sanitario, posto che altrimenti dovrebbe accogliersi un inammissibile ragionamento tautologico per cui ogni volta in cui sia ravvisabile una condotta in qualche misura negligente nell'esecuzione della terapia o dell'intervento chirurgico dovrebbe necessariamente ravvisarsi, al contempo, una omissione informativa. Il che evidentemente non è.

Il paziente che agisce in giudizio deducendo l'inesatto adempimento dell'obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l'inadempimento del sanitario restando a carico del debitore l'onere di provare l'esatto adempimento. Infatti, nell'obbligazione di mezzi il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell'inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione. Pertanto in queste obbligazioni in cui l'oggetto è la stessa attività, l'inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell'esecuzione della prestazione, cosicché può senza dubbio ritenersi che la prova sia più "vicina" a chi ha eseguito la prestazione piuttosto che al paziente che l'ha ricevuta; tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il difetto di diligenza consiste nell'inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto e che quindi è esigibile che sia quest'ultimo a dimostrare. Tale conclusione non è stata modificata dall'intervento della Legge Balduzzi, la responsabilità del medico ospedaliero - anche dopo l'entrata in vigore dell'articolo 3 Legge n. 189/12 - essendo da qualificarsi come contrattuale.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di RAVENNA
SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Alessandro Farolfi
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione ritualmente notificato, la sig.ra T. R. ha evocato in giudizio il dott. B. M. e M. C. Hospital s.p.a. (già S. P. D. Hospital s.p.a.), chiedendone la condanna solidale al risarcimento dei danni subiti a seguito dell'operazione chirurgica correttiva subita al piede dx per alluce valgo + dito "a martello" nell'aprile 2006 che, invece di eliminare un leggero indolenzimento al piede, causava conseguenze invalidanti ed ingravescenti cui seguivano ulteriori ricoveri ed interventi, con grave deterioramento della vita dell'attrice ed un danno permanente del 9%, un lungo periodo di inabilità temporanea, lesione della sua capacità lavorativa specifica di badante e necessità di ricorrere a personale a pagamento per l'assistenza al marito, deceduto nel 2008.
Si è costituito il dott. B., contestando integralmente la domanda attorea, rilevando che lo stesso era stato chiamato in mediazione e quindi evocato in giudizio ad otto anni da un intervento senza che l'attrice si fosse più ripresentata a controlli, dopo le due visite iniziali post operatorie; rilevava altresì la prescrizione della domanda attorea, avendo l'attrice concluso un contratto con l'allora Casa di Cura S. P. D. e configurandosi la responsabilità del medico convenuto a titolo extracontrattuale, ex art. 3 L. Balduzzi, ed in ogni caso l'assenza di nesso causale e di responsabilità. Il convenuto domandava, conseguentemente, il rigetto delle domande attoree e la chiamata in causa della propria compagnia assicurativa.
Si è altresì costituita la casa di cura privata M. C. Hospital S.p.a., rilevando la presenza di consenso all'atto medico da parte dell'attrice che peraltro era onere del medico acquisire nell'ambito del rapporto libero-professionale instaurato con quest'ultimo, nonché l'assenza di qualunque responsabilità della struttura. La convenuta concludeva per il rigetto delle domande attoree e per la chiamata in causa del medico già convenuto, per essere da questi tenuta indenne e manlevata di qualunque conseguenza negativa, nonché delle proprie compagnie assicuratrici.
Disposta la integrazione del contraddittorio, si è costituita la compagnia A. Assicurazioni s.p.a. associandosi alle difese della casa di cura ed eccependo l'esistenza di un massimale "a consumo" e la presenza di coassicurazione, rilevando che la stessa potrebbe al più rispondere sino all'importo di Euro 500.000 per tutti i sinistri verificatisi fra il 31/12/2003 e 31/12/2008 e solo in secondo rischio (ossia solo per l'eccedenza rispetto a quanto garantito dalla polizza personale) per i medici non dipendenti dalla casa di cura, quale era il dott. M. B., con una franchigia di 750.000 Euro.
Si è così costituita anche la G. I. s.p.a. contestando l'an ed il quantum della domanda attorea e l'estraneità della casa di cura dalla causazione del danno, eccependo l'esistenza di coassicurazione che per la terza chiamata corrisponde ad un 10% del massimale a consumo di Euro 1.000.000 (importo massimo risarcibile di Euro 100.000), e solo in secondo rischio (ossia solo per l'eccedenza rispetto a quanto garantito dalla polizza personale) per i medici non dipendenti dalla casa di cura, quale era il dott. M. B., con una franchigia di 750.000 Euro.
Si è infine costituita anche A. M. s.p.a., compagnia assicurativa del medico convenuto dott. B., aderendo alle difese di quest'ultimo e contestando che la polizza opera soltanto in secondo rischio, oltre il massimale assicurato dall'ente ovvero, in mancanza di copertura assicurativa dell'ente (pubblico o privato) per la sola ipotesi di insolvenza dello stesso, nonché l'inoperatività della garanzia rispetto alla domanda di rivalsa svolta dalla casa di cura nei confronti del sanitario e, in ogni caso, l'inoperatività della polizza per la mancata comunicazione delle richieste risarcitorie già pervenute al momento di accensione del rapporto assicurativo e l'assenza di copertura quanto all'eventuale ipotesi di carenza di consenso informato.
In corso di causa, dopo la concessione dei termini di cui all'art. 183 co. 6 c.p.c., è stata espletata una CTU medico legale (dep. 24/04/2017 da parte del dott. B.).
La causa è stata infine trattenuta in decisione da questo Giudice all'udienza del 13/12/2017, previa concessione di termini per conclusionali e repliche.

MOTIVI DELLA DECISIONE
La domanda risarcitoria di parte attrice appare fondata, per quanto di ragione, e deve essere accolta alla luce e nei limiti delle seguenti considerazioni.
La C.T.U. espletata in corso di causa, eseguita con corretta metodologia e nel pieno rispetto del contraddittorio, dopo ampia ricostruzione dei dati anamnestici e della "storia" sanitaria della paziente (vds. p. 5 e ss.) ha portato ad evidenziare, mediante argomentazioni scevre da vizi logici e basate sul consulto di altro sanitario specialistico, che l'intervento chirurgico poteva apparire giustificato quale scelta terapeutica e che, tuttavia "sono emerse delle criticità nella materiale esecuzione dello stesso" (p. 22), con una evoluzione post chirurgica espressamente definita come "negativa" (p. 23) e "intimamente correlata ad un inserimento inadeguato dei cerchiaggi, alias errore tecnico" ed ancora la sussistenza di nesso causale "in altri e più precisi termini, la coerente analisi dei dati tecnici a disposizione permette di rilevare come alle avversità (altrimenti evitabili) sopra citate abbia efficientemente concorso una incongrua esecuzione dell'intervento da parte del dott. M. B., rilavando altresì una carenza di valida continuità assistenziale post operatoria. Conclude sul punto il CTU, in modo convincente, che "l'erronea condotta del dott. M. B. si pone come antecedente causale giuridicamente rilevante nel determinismo del successivo e travagliato iter clinico della sig.ra T. R." (p. 24). Aggiunge il CTU che "seguendo un continuum fenomenologico del tutto coerente, a distanza di circa 2 anni dal duplice e ravvicinato intervento chirurgico la paziente pativa una alterazione anatomo-funzionale dei nervi plantari con sviluppo dei neuromi di Morton al 1° spazio ed al 1° raggio metatarsale, di per sé responsabili di un (ulteriore) 3° intervento per la loro rimozione".
Il CTU ha risposto in modo coerente alle osservazioni mosse dai CTP di parte, non risultando perciò necessaria la sua chiamata a chiarimenti né, tanto meno, una rinnovazione delle operazioni peritali (vds. p. 26 e ss. dell'elaborato).
Ritiene invece lo scrivente magistrato che il consenso della paziente sia stato reso con modalità sufficientemente informate, tenuto conto che esiste modulo di raccolta del consenso che evidenzia i principali rischi e che, soprattutto, il tenore dell'informazione non può spingersi a descrivere rischi improbabili o esiti infausti di per sé discendenti da una scorretta esecuzione dell'atto sanitario, posto che altrimenti dovrebbe accogliersi un inammissibile ragionamento tautologico per cui ogni volta in cui sia ravvisabile una condotta in qualche misura negligente nell'esecuzione della terapia o dell'intervento chirurgico dovrebbe necessariamente ravvisarsi, al contempo, una omissione informativa. Il che evidentemente non è. Giova aggiungere che la scelta chirurgica in sé non è stata oggetto di critica da parte del CTU, sì che neppure può sostenersi che il paziente avrebbe potuto alternativamente percorrere misure conservative e che, ancora, l'esecuzione dell'intervento è stata preceduta - per quanto affermato dalla stessa attrice - dall'esecuzione nel marzo del 2006 di esame radiografico e da un'ulteriore visita a seguito del quale la paziente è stata certamente informata delle condizioni di salute in cui versava e della necessità dell'intervento e delle sue almeno indicative modalità di esecuzione e rischi. La circostanza che la scelta chirurgica sia poi stata condivisa dal CTU come appropriata al caso (seppure non correttamente eseguita) toglie pregio all'argomento secondo cui una più approfondita informazione avrebbe consentito alla paziente di scegliere altro trattamento terapico.
Pur con tale precisazione, deve perciò ritenersi la sussistenza dell'an debeatur della responsabilità di entrambi i convenuti, in ragione della responsabilità contrattuale su di essi gravante e sul conseguente onere della prova liberatoria dai medesimi non fornito. Tale conclusione di ordine probatorio è stata applicata al campo sanitario dalla nota ed ancora attuale Cass. 28.5.2004, n. 10297, ritenendo che deve affermarsi che il paziente che agisce in giudizio deducendo l'inesatto adempimento dell'obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l'inadempimento del sanitario restando a carico del debitore l'onere di provare l'esatto adempimento: «Più precisamente, consistendo l'obbligazione professionale in un'obbligazione di mezzi, il paziente dovrà provare l'esistenza del contratto e l'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento, restando a carico del sanitario o dell'ente ospedaliero la prova che la presta-zione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile. La distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non rileva dunque più quale criterio di distribuzione dell'onere della prova, ma dovrà essere apprezzata per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà». Secondo il S.C. porre a carico del sanitario o dell'ente ospedaliero la prova dell'esatto adempimento della prestazione medica soddisfa la linea evolutiva della giurisprudenza in tema di onere della prova fondata sul principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell'effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla. Secondo i giudici infatti, nell'obbligazione di mezzi il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell'inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione. Pertanto in queste obbligazioni in cui l'oggetto è la stessa attività, l'inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell'esecuzione della prestazione, cosicché può senza dubbio ritenersi che la prova sia più "vicina" a chi ha eseguito la prestazione piuttosto che al paziente che l'ha ricevuta; tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il difetto di diligenza consiste nell'inosservanza delle regole tecniche che go-vernano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto e che quindi è esigibile che sia quest'ultimo a dimostrare
In diritto, un tale principio ha ricevuto compiuto svolgimento e precisazione - anche per le case di cura private oltre che per i plessi sanitari pubblici - con la nota Cass. S.U. 11 gennaio 2008, n. 577, secondo cui "in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio, l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di un'affezione ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante".
Tanto sulla scorta della seguente condivisibile premessa: "per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria. Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l'accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto".
Tale conclusione non è stata modificata, ad avviso dello scrivente, dall'intervento della Legge Balduzzi (mentre il caso non è assoggettabile alle ultime disposizioni della legge Gelli, di riforma della precedente normativa).
Infatti, il Tribunale di Milano, smentendo una interpretazione di detta normativa in chiave "extra contrattuale" ha correttamente ritenuto che: «la responsabilità del medico ospedaliero - anche dopo l'entrata in vigore dell'articolo 3 Legge n. 189/12 - è da qualificarsi come contrattuale ... D'altra parte, la presunzione di consapevolezza che si vuole assista l'azione del Legislatore impone di ritenere che esso, ove avesse effettivamente inteso ricondurre una volta per tutte la responsabilità del medico ospedaliero (e figure affini) sotto il solo regime della responsabilità extracontrattuale escludendo così l'applicabilità della disciplina di cui all'articolo 1218 del codice civile, così cancellando lustri di elaborazione giurisprudenziale, avrebbe certamente impiegato proposizione univoca (come per esempio «la responsabilità dell'esercente la professione sanitaria per l'attività prestata quale dipendente o collaboratore di ospedali, cliniche e ambulatori è disciplinata dall'art. 2043 del codice civi-le») anziché il breve inciso in commento» (cfr. Trib. Milano n. 13574/2013). Anche altri giudici di merito hanno continuato ad interpretare in chiave contrattuale la responsabilità del sanitario (oltre a quella pacifica dell'ente ospedaliero): in particolare, Trib. Napoli 13.5.2015, Trib. Arezzo 14.2.2013 e Trib. Cremona 1.10.2013. In una delle prime pronunce, Trib. di Rovereto 29.12.2013, ha così affermato: «il legislatore non è intervenuto sulle fonti delle obbligazioni e, in particolare, sull'art. 1173 c.c. il quale individua non solo il contratto e l'atto illecito ma anche ogni atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico; anche le obbligazioni di fonte legale (e non solo quelle di fonte contrattuale) sono disciplinate dall'art. 1218 c.c. e, per effetto della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale (legge n. 833 del 1978) è configurabile un rapporto obbligatorio di origine legale ogni qual volta un paziente si rivolga ad una qualche struttura sanitaria appartenente al servizio per ricevere le cure del caso, indipendentemente dalla conclusione di un contratto in senso tecnico».
Anche Trib. Bari 7.7.2015, ha aderito a questo orientamento, sostenendo che «non si può convenire con l'evoluzione giurisprudenziale seguita all'introduzione nel nostro ordinamento dell'art. 3 L. n. 189/2012 (c.d. Legge Balduzzi), che avrebbe ricondotto la responsabilità del medico nell'ambito della responsabilità extracontrattuale, atteso che la norma citata deve intendersi riferita soltanto ai casi di colpa lieve dell'esercente la professione sanitaria che si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica; ne consegue che, anche dopo l'entrata in vigore della c.d. Legge Balduzzi, la responsabilità del medico operante in una struttura sanitaria è da qualificarsi come contrattuale».
Tale posizione è stata accolta anche dalla giurisprudenza di legittimità: «l'articolo 3, comma 1, della Legge n. 189/2012, là dove omette di precisare in che termini si riferisca all'esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso la responsabilità penale, comporta che la norma dell'inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 c.c., poiché in lege aquilia et levissima culpa venit, vuole solo significare che il legislatore si è soltanto preoccupato di esclude-re l'irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura. La norma, dunque, non induce il superamento dell'orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni» (Cass. n. 8940/2014).
Poichè, come detto, la legge Gelli non è applicabile alla fattispecie in esame, quanto precede appare sufficiente a rigettare l'eccezione di prescrizione avanzata dal dott. B. ed a fondare la responsabilità solidale di entrambi i convenuti. Diverso è, evidentemente il discorso per quanto riguarda la graduazione interna, posta la domanda di manleva svolta dalla casa di cura nei confronti del sanitario, domanda che deve essere accolta considerato che nessuna negligenza è risultata imputabile al più generale svolgimento della prestazione assistenziale da parte della casa di cura, dovendo ricondursi l'inadempimento ad un inesatto svolgimento della prestazione chirurgica da parte del solo dott. B., come sul punto ha chiarito lo stesso CTU.

II.
Passando alla liquidazione del danno risarcibile in favore dell'attrice occorre evidenziare come lo stesso CTU abbia ridimensionato le conseguenze risarcibili causalmente connesse a colpa medica nell'ordine del 4-5% di danno biologico (vds. conclusioni p. 38 ove distingue un quadro menomativo complessivo da quello causalmente collegato alla sola prestazione sanitaria qui contestata). Attese le specificità del caso si adotterà per il calcolo del danno risarcibile, al fine di determinare un completo e non parziale ristoro delle lesioni subite, la misura del 5%.
Il CTU ha invece escluso una diminuzione della capacità lavorativa specifica di badante, mentre in assenza di prova più specifica, il periodo di inabilità temporanea già risulta risarcibile in relazione ai seguenti periodi di compromissione temporanea dell'integrità psico-fisica:
60 gg. di ITP al 75%;
60 gg. di ITP al 50%;
60 gg. di ITP al 25%.

Spese documentate e rimborsabili in Euro 8.129,94 senza necessità di ricorrere a spese mediche future.
In relazione alla liquidazione in termini monetari del danno, viene poi in rilievo l'art. 3 co. 3 della già citata Legge Balduzzi, ove si afferma che:
"il danno biologico conseguente all'attività dell'esercente della professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, eventualmente integrate con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti all'attività di cui al presente articolo".
Poiché nella fattispecie in esame ci si muove nell'ambito delle c.d. micropermanenti, è pertanto all'apposito decreto ministeriale attuativo dell'art. 139 Codice Assicurazioni che occorre rifarsi e, in particolare, a quello più recente: il D.M. 17 luglio 2017.
Ne consegue che, avuto riguardo all'età della paziente al momento dell'intervento, applicato l'aumento del 20% per la personalizzazione connessa alle particolarità del caso ed alle specifiche sofferenze di ordine soggettivo emerse dalla lettura dei dati clinici prodotti in giudizio, utilizzato uno dei più diffusi software di calcolo si ottiene, con somme già rivalutate alla data di pubblicazione della presente decisione, sulla scorta degli accertamenti del CTU sopra richiamati, l'importo risarcibile di € 19.341,97. Tale somma deve essere gravata degli interessi legali dalla data di pubblicazione della presente decisione sino al soddisfo.
Nessun altro danno è stato provato o allegato in termini specifici e non apodittici.
Nessuna delle compagnie assicuratrici chiamate in giudizio è tenuta a rispondere in manleva: per quanto riguarda il medico dott. B., infatti, la polizza prodotta dalla A. M. contiene una espressa esclusione del c.d. primo rischio all'art. 16 nell'ipotesi in cui - come nella specie - vi sia una Casa di Cura solidalmente responsabile che non sia non insolvente; a sua volta, tuttavia, anche le polizze delle Compagnie assicuratrici chiamate in giudizio da M. C. Hospital s.p.a. sono limitate al c.d. "secondo rischio", ciò che determina anche in questo caso l'assenza di copertura assicurativa.
Come detto, va invece accolta la domanda di manleva svolta dalla casa di cura nei confronti del sanitario pure convenuto.
Le spese legali seguono la soccombenza e gravano sui due convenuti. La complessità di analisi contrattuale e la particolarità della fattispecie, giustifica l'integrale compensazione delle spese quanto alle chiamate in causa. Le spese di CTU gravano in via definitiva sui convenuti, in via solidale.

P.Q.M.
Il Tribunale di Ravenna, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando nella causa R.G. 365/2015, ogni diversa istanza, domanda ed eccezione respinta,
dichiara tenuti e condanna, per i titoli in motivazione, il dott. B. M. e M. C. Hospital s.p.a. a risarcire all'attrice T. R. la somma di Euro 19.341,97 oltre interessi legali dalla pubblicazione della presente decisione al soddisfo;
dichiara tenuto e condanna il dott. M. B. a rifondere e tenere indenne M. C. Hospital s.p.a. di quanto eventualmente pagato all'attrice in dipendenza della condanna di cui al capo che precede;
dichiara tenuti e condanna i convenuti a rifondere a parte attrice le spese di lite, che liquida in complessivi Euro 5.621 (di cui Euro 786 per spese, Euro 4.835 per compensi), oltre spese generali, IVA e CPA come per legge, oltre al rimborso delle spese di CTU nella misura liquidata e provvisoriamente sostenuta in corso di causa;
compensa le spese quanto alle terze chiamate compagnie assicuratrici.
Ravenna, 2 maggio 2018
Il Giudice
Dott. Alessandro Farolfi


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