Attribuzione della paternità naturale in base al mero dato biologico
Pubblicato il 12/02/20 08:56 [Doc.7205]
di Redazione IL CASO.it
Cass. Civ., Sez. 1 - , Ordinanza n. 32308 del 13/12/2018.
Paternità naturale - Attribuzione in base al mero dato biologico - Art. 269 cod. civ. - Questione di legittimità costituzionale in riferimento all'art. 3 Cost. - Manifesta infondatezza.
In relazione all'art. 269 c.c., che attribuisce la paternità naturale in base al mero dato biologico, senza alcun riguardo alla volontà contraria alla procreazione del presunto padre, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all'art. 3 Cost., in ragione della disparità di trattamento che ne risulterebbe in danno dell'uomo rispetto alla donna, alla quale la l. n. 194 del attribuisce la responsabilità esclusiva di interrompere la gravidanza ove ne ricorrano le condizioni giustificative, e ciò in quanto le situazioni poste a confronto non sono comparabili, non potendo. l'interesse della donna alla interruzione della gravidanza, essere assimilato all'interesse di chi, rispetto alla avvenuta nascita del figlio fuori del matrimonio, pretenda di sottrarsi, negando la propria volontà diretta alla procreazione, alla responsabilità di genitore, in contrasto con la tutela che la Costituzione, all'art. 30, riconosce alla filiazione naturale.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina - Presidente -
Dott. MELONI Marina - Consigliere -
Dott. TRICOMI Laura - Consigliere -
Dott. IOFRIDA Giulia - Consigliere -
Dott. CAIAZZO Rosario - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1746/2017 proposto da:
B.V. nella qualità di erede di B.F., elettivamente domiciliato in Roma, * presso lo studio dell'avvocato S. G. che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
M.M., elettivamente domiciliata in Roma, *, presso lo studio dell'avvocato B. B., rappresentata e difesa dall'avvocato C. L., giusta procura in calce al controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 1527/2016 della CORTE D'APPELLO di FIRENZE, depositata il 26/09/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/10/2018 dal cons. CAIAZZO ROSARIO.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
RILEVATO CHE:
B.F. ha proposto appello avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Arezzo il 25.1.11 che accolse la domanda d'accertamento della paternità avanzata nei suoi confronti da M.M., che sosteneva di essere nata il (*) da una relazione avuta dal B. con sua madre, M.G..
Al riguardo, l'appellante lamentava anche che: il Tribunale avesse ritenuto provata la sua paternità solo sulla base delle dichiarazioni rese dalla madre della M. e delle ulteriori prove testimoniali assunte, prove peraltro ammesse in violazione di legge; il Tribunale avesse ritenuto rilevante il suo rifiuto di sottoporsi agli accertamenti ematici nell'ambito della ctu genetica disposta dal Tribunale.
Si è costituita l'appellata.
La Corte d'appello di Firenze ha rigettato l'appello, argomentando: che le prove orali, richieste tempestivamente e regolarmente ammesse dal giudice istruttore in primo grado, erano state correttamente utilizzate dal Tribunale; che era stato correttamente applicato l'art. 232 c.p.c., comma 1, - circa l'ingiustificata mancata comparizione dell'appellante ai fini dell'interrogatorio formale-, mentre dal rifiuto di sottoporsi agli accertamenti ematici erano stati tratti legittimi argomenti di prova.
Il B. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi illustrati da memoria.
Resiste la M. con controricorso.
RITENUTO CHE:
Va osservato che nel ricorso viene preliminarmente eccepita l'illegittimità costituzionale dell'art. 269 c.c., per contrasto con l'art. 3 Cost., sotto il profilo dell'ingiustificata disparità del regime giuridico relativo alla maternità e alla paternità naturali. Infatti, il ricorrente ha addotto che, mentre la donna può scegliere di non essere madre abortendo il feto ai sensi della L. n. 194 del 1978, o esercitando, alla nascita del figlio, il proprio diritto di rimanere anonima ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 30, l'uomo non ha diritto di scegliere di non essere padre, perchè non ha la possibilità di rimanere anonimo e non può sottrarsi all'azione di cui all'art. 269 c.c..
L'eccezione deve essere disattesa per manifesta infondatezza, in condivisione con quanto espresso sul punto dalle pronunce di questa Corte n. 12350 del 18/11/1992, n. 3793 del 15/03/2002 e n. 13880 del 1/06/2017. Invero, le situazioni della madre e del padre, che secondo il ricorrente sarebbero normativamente discriminate con asserita violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., non sono paragonabili, perchè l'interesse della donna a interrompere la gravidanza ai sensi della L. n. 194 del 1978, o a rimanere anonima ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, non può essere assimilato all'interesse di chi, negando la volontà diretta alla procreazione, pretenda di sottrarsi alla dichiarazione di paternità naturale. Non può pertanto lamentarsi alcuna disparità di trattamento, attesa la ragionevolezza della scelta legislativa di regolare in maniera differenziata situazioni tra loro diverse.
In particolare, circa il riferimento alla normativa sull'interruzione della gravidanza, addotta dal ricorrente quale tertium comparationis, è stato altresì affermato che, in relazione all'art. 269 c.c., che attribuisce la paternità naturale in base al mero dato biologico, senza alcun riguardo alla volontà contraria alla procreazione del presunto padre, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all'art. 3 Cost., in ragione della disparità di trattamento che ne risulterebbe in danno dell'uomo rispetto alla donna, alla quale la L. 22 maggio 1978, n. 194, attribuisce la responsabilità esclusiva di interrompere la gravidanza ove ne ricorrano le condizioni giustificative, e ciò in quanto le situazioni poste a confronto non sono comparabili, l'interesse della donna alla interruzione della gravidanza non potendo essere assimilato all'interesse di chi, rispetto alla avvenuta nascita del figlio fuori del matrimonio, pretenda di sottrarsi, negando la propria volontà diretta alla procreazione, alla responsabilità di genitore, in contrasto con la tutela che la Costituzione, all'art. 30, riconosce alla filiazione naturale.
Con il primo motivo del ricorso è stata dedotta la nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 177 e 189 c.p.c., in relazione all'art. 360, n. 4, per aver la Corte d'appello ammesso le prove testimoniali della parte attrice all'udienza di precisazione delle conclusioni, erroneamente revocando l'ordinanza che aveva fissato la precisazione delle conclusioni, non ostante l'intervenuta decadenza dell'attrice dalle prove testimoniali.
Con il secondo motivo è stata dedotta la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 232, 183 e 188 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4, in quanto il giudice istruttore aveva ritenuto che la mancata comparizione del B., all'udienza fissata per l'interrogatorio formale, avesse comportato l'ammissione dei fatti di causa e che tale mezzo di prova non avrebbe dovuto essere ammesso.
Con il terzo motivo è stata denunziata la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 118, 258 e 260 c.p.c., avendo la Corte d'appello disposto la prova genetica ed ematologica, erroneamente applicando le norme generali sulla ctu e non invece quelle che disciplinano l'ispezione corporale.
Il primo motivo è infondato alla luce del consolidato orientamento di questa Corte secondo cui nel regime processuale di cui alla L. 26 novembre 1990, n. 353, anche come modificato dalle L. 14 maggio 2005, n. 80, e L. 28 dicembre 2005, n. 263, il giudice, qualora a chiusura dell'udienza di trattazione, in difetto di deduzioni istruttorie, abbia rinviato ad altra udienza per la precisazione delle conclusioni, non può revocare in tale ultima udienza l'ordinanza dapprima pronunciata, ammettendo le prove soltanto in questa sede richieste, in quanto il potere di revoca e modifica delle ordinanze, previsto dall'art. 177 c.p.c., non è esercitabile al fine di rendere inoperante la preclusione istruttoria già verificatasi, della quale neppure il giudice può disporre (Cass., n. 14110/13; n. 16571/02).
Pertanto, nel caso concreto, poichè parte attrice risultava dai verbali di causa avere già tempestivamente formulato le istanze istruttorie nei termini concessi dal giudice istruttore di primo grado, la Corte d'appello ha correttamente ritenuto legittima la revoca implicita del provvedimento di fissazione dell'udienza di precisazione delle conclusioni, attraverso l'ordinanza che ha ammesso i mezzi di prova reiterati.
Il secondo motivo è infondato in quanto, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, il giudice d'appello ha espressamente rilevato che il Tribunale aveva considerato che la mancata comparizione di B.F., senza giustificato motivo, a rendere l'interrogatorio formale, costituisse elemento di prova liberamente valutabile e non confessione della relazione e del concepimento. La Corte territoriale ha poi legittimamente confermato quella valutazione, irreprensibilmente valorizzandola, al pari del primo giudice, nel contesto della serie di dati probatori concorrenti emersi a carico del B. (prove testimoniali; omessa presentazione all'interrogatorio formale; rifiuto di sottoporsi agli accertamenti ematici).
Il terzo motivo è parimenti infondato. Il ricorrente si duole che la Corte abbia disposto l'esame genetico non con ispezione corporale ex art. 118 c.p.c., ma con c.t.u., senza l'osservanza delle garanzie che le norme processuali pongono a tutela della persona sottoposta ad ispezione.
Va osservato che nei giudizi promossi per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale l'esame genetico sul presunto padre si svolge mediante consulenza tecnica c.d. percipiente, ove il consulente nominato dal giudice non ha solo l'incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti, ma di accertare i fatti stessi. E' necessario e sufficiente in tal caso che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l'accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche, perchè la consulenza costituisca essa stessa fonte oggettiva di prova (Cass. n. 6155 del 13/03/2009, n. 4792 del 26/02/2013, n. del 2017). Nei giudizi in questione tale mezzo istruttorio rappresenta, dati i progressi della scienza biomedica, lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l'acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione naturale, e con esso il giudice accerta l'esistenza o l'inesistenza di incompatibilità genetiche, ossia un fatto biologico di per sè suscettibile di rilevazione solo con l'ausilio di competenze tecniche particolari (Cass. n. 14462 del 29/05/2008). Al contrario, gli artt. 118, 258 e 260 c.p.c., di cui il ricorrente asserisce la violazione, attengono all'ispezione corporale e sono pertanto estranei all'accertamento tecnico in questione, non costituendo il prelievo ematico (al pari del prelievo di saliva dalla mucosa buccale) un'ispezione corporale, ma un mezzo necessario per l'espletamento della consulenza genetica ed ematologica (Cass. n. 8733 del 09/04/2009; n. 13880/17).
Di conseguenza è infondata la censura di violazione di legge per aver la sentenza impugnata fatto applicazione dell'art. 118 c.p.c., comma 2, in quanto la Corte territoriale, nell'accertare la paternità naturale del B., ha valorizzato il rifiuto di quest'ultimo di sottoporsi alla prova genetica. Invero, nel giudizio diretto ad ottenere la dichiarazione giudiziale della paternità (o maternità) naturale, in tema di prova, se la volontà di sottoporsi al prelievo ematico per eseguire gli accertamenti sul DNA non è coercibile, nulla tuttavia impedisce al giudice di valutare, in caso di rifiuto, sia pur in sè legittimo, ma privo di adeguata giustificazione, il comportamento della parte, ai sensi dell'art. 116 c.p.c.. A tal riguardo è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione di cui all'art. 269 c.c., comma 2, secondo la quale la prova della paternità o maternità naturale può essere data con ogni mezzo, alla luce di un preteso contrasto con l'art. 30 Cost., comma 4, secondo il quale "La legge detta i limiti per la ricerca della paternità" (Cass., n. 8059/97). E' stato altresì affermato che nel giudizio di disconoscimento della paternità è valutabile, come elemento indiziario di convincimento, non solo il rifiuto della parte di sottoporsi alla disposta prova genetica ed ematologica (il quale è assimilabile al rifiuto di ottemperare all'ordine d'ispezione corporale di cui all'art. 118 c.p.c., comma 2), ma anche la sistematica opposizione avverso l'istanza di detta prova, riconducibile nell'ambito del comportamento processuale di cui all'art. 116 c.p.c., comma 2 (Cass., n. 3094/85; n. 6400/80).
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida nella somma di Euro 6200,00 di cui 200,00 per esborsi, oltre alla maggiorazione per il rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati significativi, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 9 ottobre 2018.
Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2018
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