Volontario abbandono della casa coniugale e violazione del dovere di convivenza
Pubblicato il 03/06/20 08:44 [Doc.7662]
di Redazione IL CASO.it


Cass. Civ., Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 648 del 15/01/2020

Dovere di convivenza - Volontario abbandono della casa coniugale - Sufficienza ai fini dell'addebito - Condizioni.

Il volontario abbandono del domicilio familiare da parte di uno dei coniugi, costituendo violazione del dovere di convivenza, è di per sé sufficiente a giustificare l'addebito della separazione personale, a meno che non risulti provato che esso è stato determinato dal comportamento dell'altro coniuge o sia intervenuto in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile ed in conseguenza di tale fatto.




REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto - Presidente -
Dott. MARULLI Marco - Consigliere -
Dott. MERCOLINO Guido - Consigliere -
Dott. CAMPESE Eduardo - Consigliere -
Dott. DOLMETTA Aldo Angelo - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 16724/2018 R.G. proposto da:

V.G., rappresentato e difeso dall'Avv. S. V., con domicilio eletto in Roma, *;
- ricorrente -
contro
S.L., rappresentata e difesa dall'Avv. M. P., con domicilio eletto in Roma, *;
- controricorrente -
avverso la sentenza della Corte d'appello di Roma n. 1469/18 depositata il 6 marzo 2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 3 dicembre 2019 dal Consigliere Guido Mercolino.

Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Che: V.G. ha proposto ricorso per cassazione, per tre motivi, avverso la sentenza del 6 marzo 2018, con cui la Corte d'appello di Roma ha accolto parzialmente il gravame interposto dalla moglie S.L. avverso la sentenza emessa l'11 aprile 2016, confermando la separazione personale dei coniugi, ma rigettando la domanda di addebito proposta dal ricorrente, e ponendo a carico dell'uomo l'obbligo di corrispondere un assegno mensile di Euro 200,00, a titolo di contributo per il mantenimento della donna;
che la S. ha resistito con controricorso.
Considerato che con il primo motivo d'impugnazione il ricorrente denuncia la nullità della sentenza per violazione dell'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, censurando la sentenza impugnata per aver irragionevolmente ravvisato nella sua condotta una sostanziale acquiescenza all'allontanamento della moglie dalla casa familiare, dalla quale ha desunto il venir meno dell'affectio coniugalis già nel corso della convivenza, senza tener conto dell'anteriorità del predetto allontanamento rispetto ai fatti presi in esame e dell'idoneità degli stessi ad evidenziare il suo tentativo di recuperare l'unità familiare;
che con il secondo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazione dell'art. 2697 c.c., dell'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e degli artt. 112 e 115 c.p.c., sostenendo che, nel rigettare la domanda di addebito della separazione alla S., la Corte di merito non ha considerato che l'allontanamento unilaterale ed ingiustificato dalla casa familiare costituiva una grave violazione dei doveri coniugali, che poneva a carico della stessa l'onere, rimasto insoddisfatto, di fornire la prova dell'esistenza di una giusta causa;
che con il terzo motivo il ricorrente insiste sulla nullità della sentenza per violazione dell'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, censurando la sentenza impugnata per aver illogicamente ritenuto giustificato l'allontanamento della S. dalla casa familiare, avvenuto in un periodo in cui egli si trovava in precarie condizioni di salute, in virtù del lungo tempo trascorso prima della proposizione della domanda di separazione;
che i tre motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto profili diversi della medesima questione, sono inammissibili;
che, nell'escludere l'addebitabilità della separazione alla S., la sentenza impugnata ha correttamente applicato il principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il volontario abbandono del domicilio familiare da parte di uno dei coniugi, costituendo violazione del dovere di convivenza, è di per sè sufficiente a giustificare l'addebito della separazione, a meno che non risulti provato che esso è stato determinato dal comportamento dell'altro coniuge o sia intervenuto in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile ed in conseguenza di tale fatto (cfr. Cass., Sez. VI, 15/12/2016, n. 25966; Cass., Sez. I, 29/09/2015, n. 19328; 8/05/2013, n. 10719);
che la Corte di merito, pur dando atto dell'abbandono della casa familiare da parte della donna, ha posto infatti in risalto una serie di circostanze rimaste incontestate, soltanto in parte posteriori alla predetta condotta, da essa ritenute idonee a dimostrare che l'interruzione della convivenza aveva in realtà rappresentato l'esito di un crisi familiare già in atto da tempo, in quanto attestanti l'intervenuto deterioramento dei rapporti tra i coniugi, in epoca anteriore al predetto allontanamento, ed il disinteresse in seguito manifestato dal V. per il ripristino dell'unità familiare;
che, in quest'ottica, la sentenza impugnata ha evidenziato per un verso la prolungata assenza di rapporti intimi tra i coniugi, gli accesi contrasti con la famiglia di origine della S., l'esclusione di quest'ultima dalla gestione delle entrate familiari e l'occultamento alla stessa dell'avvenuto pensionamento del marito, e per altro verso il ritardo con cui l'uomo si era messo alla ricerca della moglie, la saltuarietà delle richieste di notizie da lui rivolte ai parenti della donna ed il consenso da lui infine prestato al ritiro degli effetti personali di quest'ultima;
che, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., comma 1, le predette circostanze ben potevano essere utilizzate dalla Corte di merito per la formazione del proprio convincimento, in quanto, pur non avendo costituito oggetto di specifica dimostrazione da parte della S., tenuta a provare la giusta causa del proprio allontanamento dalla casa familiare, erano rimaste incontestate, con la conseguenza che la relativa prova doveva ritenersi ormai acquisita agli atti;
che, nel censurare le conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata, il ricorrente non è in grado d'individuare lacune argomentative o incongruenze tali da impedire la ricostruzione dell'iter logico seguito per giungere alla decisione, ma si limita a contestare il valore indiziario delle circostanze evidenziate dalla Corte di merito, trascurando peraltro quelle relative al periodo anteriore all'interruzione della convivenza, e ad insistere sulla portata sintomatica di altri elementi, asseritamente non presi in esame, senza considerare che, al di fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge, spetta al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove e di controllarne l'attendibilità e la concludenza, nonchè di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti (cfr. tra le più recenti, Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547; Cass., Sez. I, 31/07/2017, n. 19011; 2/08/2016, n. 16056);
che, in tal modo, il ricorrente dimostra di voler sollecitare, attraverso l'apparente deduzione del difetto di motivazione, una nuova valutazione del materiale probatorio, non consentito a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, nonchè la coerenza logica delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie possono ancora essere fatte valere con il ricorso per cassazione, a seguito della modificazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., Sez. VI, 7/12/2017, n. 29404; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547);
che il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dall'art. 13 cit., comma 1-bis, se dovuto.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella ordinanza.
Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020


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