Depenalizzazione e risarcimento della parte civile
Pubblicato il 18/06/16 21:39 [Doc.1221]
di Donato Giovenzana, Legale d'Impresa
Cass., sez. V Penale, sent. n. 25062/16, dep. 16/6/2016
La Suprema Corte, investita del delicato thema decidendum del diritto al risarcimento della costituita parte civile nellâambito di un procedimento penale, il cui giudizio non sia ancora divenuto irrevocabile, in caso di intervenuta abolitio criminis, dopo aver precisato che
⢠in virtù delle previsioni del D. Lgs. 15 gennaio 2016 n. 7, l'art. 594 c.p. è stato abrogato ed il fatto di ingiurie trasformato in illecito civile,
⢠mentre il terzo comma, art. 9, D. Lgs. n. 8 del 2016, in materia di depenalizzazione di reati puniti con la sola pena pecuniaria e trasformazione degli stessi in illeciti amministrativi, nell'ipotesi che la depenalizzazione sia sopravvenuta nel corso del procedimento penale, prevede che "se l'azione penale è stata esercitata, il giudice pronuncia, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., sentenza inappellabile perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti a norma del comma 1. Quando è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice dell'impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, decide sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili",(i.e. è stato quindi previsto che il giudice penale possa decidere sull'impugnazione ai soli effetti civili, costituendo una chiara scelta del Legislatore di tutelare la persona danneggiata dai fatti depenalizzati, non costringendola a proporre nuovamente la sua domanda risarcitoria dinanzi al giudice civile, in evidente contrasto con il principio del giusto processo ex art. 111 Cost.),
⢠una disposizione analoga al citato art. 9, D.Lgs. n. 8 del 2016, manca nel coevo decreto n. 7/2016,
⢠con lâinsorgenza, quindi, del problema della sorte dell'eventuale costituzione di parte civile in giudizio e/o dell'eventuale statuizione di condanna per la responsabilità civile pronunciata dal giudice di primo grado, nelle ipotesi di reati trasformati in illeciti civili, in particolare, nel caso in cui sia già intervenuta una sentenza di "condanna" (in primo o secondo grado), avverso la quale sia proposta impugnazione,
HA RITENUTO DI ADERIRE
alla tesi secondo la quale dall'assenza di una norma transitoria che disponga, in modo esplicito, che il giudice dell'impugnazione è tenuto a pronunciarsi in ordine agli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili non consegua che le statuizioni in questione debbano essere revocate.
Detto approdo in quanto
1. secondo giurisprudenza consolidata, la revoca della sentenza di condanna (divenuta definitiva) per "abolitio criminis" - conseguente alla perdita del carattere di illecito penale del fatto - non comporta il venir meno della natura di illecito civile del medesimo fatto, con la conseguenza che la sentenza non deve essere revocata relativamente alle statuizioni civili derivanti da reato, le quali continuano a costituire fonte di obbligazioni efficaci nei confronti della parte danneggiata; per il che non può giustificarsi una differente soluzione nel caso di revoca della sentenza di condanna per sopravvenuta abolitio criminis (revoca la cui portata viene circoscritta agli effetti penali e con esclusione di quelli civili) e nel caso, come quello in esame, in cui una sentenza di condanna è intervenuta ma non è ancora irrevocabile;
2. gli effetti sul piano processuale della abolitio criminis non possono essere, per coerenza, diversi da quelli previsti sul piano sostanziale, laddove è stato previsto che al diritto del danneggiato dal reato al risarcimento del danno non si applicano i principi attinenti la successione nel tempo delle leggi penali, fissati dall'art. 2 c.p., ma il principio stabilito dall'art. 11 delle preleggi, con la conseguenza che il diritto al risarcimento permane anche a seguito di "abolitio criminis", nulla rilevando successive modifiche legislative, che non abbiano espressamente disposto sui diritti quesiti. Infatti, da tempo la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato come permanga il diritto al risarcimento dei soggetti costituiti parte civile anche a seguito dell'abrogazione del reato, trovando applicazione non l'art. 2 c.p., comma 2, ma l'art. 11 preleggi. Quindi, se l'art. 2 c.p., disciplina espressamente la sola cessazione dell'esecuzione e degli effetti penali della condanna, ne deriva, attraverso un'argomentazione a contrario, che le obbligazioni civili derivanti dal reato abrogato non cessano, in quanto per il diritto del danneggiato al risarcimento dei danni trovano applicazione i principi generali sulla successione delle leggi stabiliti dall'art. 11 preleggi;
3. una diversa interpretazione della normativa in esame violerebbe l'art. 3 Cost., determinando una irragionevole disparità di trattamento fra il danneggiato che ha ottenuto una condanna al risarcimento in un processo penale che si concluda (in appello o in cassazione) con la declaratoria di abolitio criminis e il danneggiato che ha ottenuto la stessa condanna con una sentenza irrevocabile. Non solo, una violazione dell'art. 3 Cost. potrebbe altresì configurarsi tenuto conto del diverso trattamento tra i soggetti danneggiati dai fatti che in virtù del decreto legislativo n. 7/2016 sono ancora civilmente rilevanti e quelli depenalizzati in conseguenza del D.Lgs. n. 8 del 2016, che rilevano ancora quali illeciti amministrativi;
4. inoltre, in forza del sostenuto limite del giudice penale, risulterebbe compromesso il pieno esercizio del diritto di difesa (art. 24 Cost.) del danneggiato, il quale dovrebbe così instaurare un nuovo giudizio avanti al giudice civile al fine di soddisfare i suoi diritti, con totale vanificazione della scelta di far valere la pretesa risarcitoria in sede penale;
5. da ultimo, risulterebbe leso anche il principio di ragionevole durata del processo, sancito dall'art. 111 Cost., dal momento che la necessità di trasferire la domanda risarcitoria in sede civile costringerebbe il danneggiato a promuovere l'azione per ottenere una nuova pronuncia sia sull'"an debeatur" che sul "quantum".
Donato Giovenzana â Legale dâimpresa.
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