La mera esecuzione di ordini del superiore non salva dal licenziamento, se si violano obblighi contrattuali e vincolo fiduciario.
Pubblicato il 29/06/16 15:43 [Doc.1270]
di Donato Giovenzana, Legale d'Impresa


Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sent. n. 13149/16, ud. 16/12/2015, depos. 24/06/2016.

Significativo approdo della Suprema Corte in tema di licenziamento per giusta causa.

• Il datore di lavoro, in sede di ricorso per Cassazione, lamentava che la sentenza della Corte di merito avesse fondato il proprio iter argomentativo sull'assioma per cui la dipendente sarebbe stata mera esecutrice materiale di direttive impartite dalla responsabile dell'ufficio, inducendo a dover operare un distinguo tra la posizione delle due dipendenti, le cui diverse responsabilità dovevano essere trattate in maniera diseguale sotto il profilo sanzionatorio, per il che, poichè la responsabile dell'ufficio era stata destinataria del provvedimento di licenziamento per giusta causa, analoga sanzione non poteva applicarsi all’altra dipendente, con la conseguenza che, dietro l'apparente valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto alla condotta di quest'ultima, in realtà nella sentenza oggetto di ricorso si è proceduto ad un indebito raffronto tra le due situazioni esaminate. E ciò, senza tenere conto del fatto che, per condotte di gravità tale quali quelle poste in essere dalla dipendente non esiste altra sanzione che quella espulsiva. Quindi, la Corte di Appello, lamentava ancora la ricorrente, non aveva considerato che l'accertato inadempimento nel caso specifico fossse di proporzioni tali da compromettere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, che è quanto occorre e basta perchè ricorra la giusta causa, anche alla stregua della contrattazione collettiva.

La Suprema Corte, in accoglimento di detta doglianza, dopo aver osservato che

• che la giusta causa di licenziamento è una nozione di legge che si viene ad inscrivere in un ambito di disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi "normativi" e di clausole generali (Generalklauseln) correttezza (art. 1175 c.c.); obbligo di fedeltà, lealtà, buona fede (art. 1375 c.c.); giusta causa appunto (art. 2119 c.c.) - il cui contenuto, elastico ed indeterminato, richiede, nel momento giudiziale e sullo sfondo di quella che è stata definita la "spirale ermeneutica" (tra fatto e diritto), di essere integralo, colmato, sia sul piano della quaestio farci che della quaestio iuris, attraverso il contributo dell'interprete, mediante valutazioni e giudizi di valore desumibili dalla coscienza sociale o dal costume o dall'ordinamento giuridico o da regole proprie di determinate cerchie sociali o di particolari discipline o arti o professioni, alla cui stregua poter adeguatamente individuare e delibare altresì le circostanze più concludenti e più pertinenti rispetto a quelle regole, a quelle valutazioni, a quei giudizi di valore, e tali non solo da contribuire, mediante la loro sussunzione, alla prospettazione e configurabilità della tota res (realtà fattuale e regulae iuris), ma da consentire inoltre al giudice di pervenire, sulla scorta di detta complessa realtà, alla soluzione più conforme al diritto, oltre che più ragionevole e consona. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura di norma giuridica e la disapplicazione delle stesse è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge. Pertanto, l'accertamento della ricorrenza, in concreto, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, è sindacabile nel giudizio di legittimità, a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli "standards" conformi ai valori dell'ordinamento esistenti nella realtà sociale. E ciò, in quanto, il giudizio di legittimità deve estendersi pienamente, e non solo per i profili riguardanti la logicità e la completezza della motivazione, al modo in cui il giudice di merito abbia in concreto applicato una clausola generale, perchè nel farla compie, appunto, un'attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma, dando concretezza a quella parte mobile della stessa che il legislatore ha introdotto per consentire l'adeguamento ai mutamenti del contesto storico-sociale,

ha precisato che

• le censure formulate alla sentenza della Corte torinese appaiono conferenti poichè evidenziano in modo puntuale gli "standards" dai quali il Collegio di merito si è discostato, sottolineando gli errores in iudicando che nella sentenza appaiono palesi, laddove, pur definendosi il comportamento della dipendente come "frutto di un'indubbia leggerezza", si tende a giustificarlo in quanto "errore" che "risente evidentemente" della "situazione ambientale in cui" la lavoratrice "si è trovata ad operare, nell'ambito di un ufficio di dimensioni ridottissime, assoggettata ad una responsabile di ben più elevato rango professionale" e si trae da ciò la conseguenza che tali condotte -gravi e reiterate (ventuno volte in cinque mesi) - non siano idonee "ad integrare un'insanabile frattura del vincolo fiduciario". Quasi che, nel descritto contesto lavorativo, dalla dipendente non si potesse esigere altra condotta che quella dalla stessa tenuta, di acritica obbedienza al dettato comportamentale della responsabile dell'ufficio. La qual cosa è ben lungi dalla previsione del disposto della norma di cui all'art. 2014 c.c., che, nel prescrivere (al comma 2) che il prestatore di lavoro debba osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende, obbliga lo stesso prestatore ad usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale. E certamente, nella fattispecie, la natura della prestazione avrebbe dovuto essere oggetto di una particolare attenzione e diligenza da parte di coloro che operavano in quel particolare settore in cui la dipendente prestava servizio, non quale semplice operatrice, secondo l'interpretazione data dalla Corte di Torino, ma come impiegata dotata certamente di capacità di discernimento, alla quale, peraltro, proprio perchè considerata tale dalla società datrice di lavoro, era stata affidata la reggenza dell'ufficio in cui si erano svolti i fatti, una volta accertate le responsabilità della direttrice ed ovviamente prima dell'accertamento dei comportamenti ascrivibili alla dipendente stessa;

• alla stregua dei costanti arresti giurisprudenziali, il licenziamento disciplinare è giustificato nei casi in cui i fatti attribuiti al prestatore d'opera rivestano il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da ledere irrimediabilmente l'elemento fiduciario; il giudice di merito deve, pertanto, valutare gli aspetti concreti che attengono principalmente alla natura del rapporto di lavoro, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni specifiche del dipendente, al nocumento arrecato, alla portata soggettiva dei fatti, ai motivi ed all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo;


• la Corte di Appello, nella valutazione della proporzionanti tra illecito disciplinare e sanzione applicata, non si è attenuta a tale insegnamento e, nonostante l'accertata reiterazione del fatto - ventuno volte in cinque mesi -, ha ritenuto che il comportamento della dipendente fosse frutto di "indubbia leggerezza", senza trarne le conseguenze logico-giuridiche in termini di proporzionalità tra fatto commesso e sanzione irrogata. La Corte ha omesso, quindi, di tenere nel debito conto il fatto che le delicate mansioni attribuite alla dipendente avrebbero meritato ben altra attenzione nel momento esecutivo, mentre sono state esercitate, reiteratamente, in violazione anche dell'art. 2105 c.c., ultima parte, in modo da arrecare pregiudizio al datore di lavoro, senza l'osservanza del prescritto obbligo di fedeltà, con grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e con modalità tali da porte in dubbia la futura correttezza dell'adempimento da parte della dipendente; ed altresì in violazione della contrattazione collettiva che fa espresso riferimento, per le ipotesi in cui ricorre la "giusta causa", alle fattispecie di "connivente tolleranza di abusi commessi da dipendenti o da terzi"; di "violazioni dolose di leggi o regolamenti o dei doveri di ufficio che possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio alla Società o a terzi"; di "dolosa alterazione, falsificazione o sottrazione di documenti, registri o atti della Società o ad essi affidali, al fine di trarne profitto"; di compimento di "fatti o atti dolosi, anche nei confronti dei terzi, in connessione con il rapporto di lavoro, di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto" stesso. Comportamenti che, nella fattispecie, sono stati posti in essere dalla dipendente , come, del resto, dalla stessa ammesso.


Donato Giovenzana – Legale d’impresa


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